Scarica in formato PDF – [ I 4 giorni ]
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Maria Giulia Cotini – “I quattro giorni”
Capitolo 1
Era la primavera del 1378 a Narni, comune da poco tornato sotto il controllo del Papa dopo un tentativo di rivolta1.
La piccola Giovanna, una bambina di sette anni vestita di un lungo abito color cremisi ornato alla scollatura quadrata di un leggero pizzo bianco e i capelli castani raccolti sotto una cuffia color tortora, saltellò verso la stanza del fratello maggiore e bussò con discrezione. Le rispose il grugnito di una voce ancora infantile ed entrò. Suo fratello Michele, di dodici anni, sollevò il viso dal grosso tomo sul quale stava studiando, mascherando la soddisfazione per l’interruzione con uno sguardo infastidito. Era già una tortura lo studio, cosa voleva adesso Giovanna, pensò. <<Michele, nostro padre mi manda a chiamarvi, vuole parlarvi nel suo studio>> disse la bimba. <<Vengo subito>> rispose lui alzandosi. Sperava ardentemente che suo padre non volesse punirlo per qualche marachella o affiancargli un istitutore ancor più severo di quel vecchio bizzoso di messer Trotula, come spesso minacciava. Il ragazzo, dai capelli castani un po’ spettinati, indossava braghe ampie2 e giustacuore3 blu, da cui uscivano i polsini di una camicia bianca. Attraversò a passo lento un lungo corridoio e si diresse verso lo studio del padre.
Michele si sentiva sempre piuttosto a disagio quando si trovava da solo in presenza dei genitori, in particolare di Leone, il padre, un commerciante molto ricco e bene affermato dai modi bruschi. Sua madre, Costanza, era come una dea inarrivabile. Bellissima e dal portamento superbo, era una nobildonna di antica stirpe dal carattere estremamente forte che la portava sempre a nascondere i propri sentimenti. Il matrimonio tra lei e Leone era stato un matrimonio insolitamente concordato dalle famiglie per comune interesse4, ma col tempo lei e il marito avevano imparato a rispettarsi e avevano avuto tre figli cui avevano dato una educazione consona al loro rango. La piccola Giovanna era già promessa da tempo al conte Mancinelli, appartenente a una tra le più nobili famiglie narnesi5 mentre Michele avrebbe ereditato le ricchezze paterne. Il figlio minore, Cassio, di sei anni, sarebbe stato avviato alla carriera ecclesiastica, che avesse o no la vocazione non importava.
Michele aveva già intuito che il suo destino e quello dei fratelli era stato scritto dai genitori e si riteneva fortunato ad essere l’erede delle ricchezze di Leone Ridolfini, ma essendo per natura estremamente turbolento, non sopportava la disciplina impostagli dai genitori e dal manesco precettore, che volevano trasformarlo in una sorta di “piccolo adulto”, pronto appena possibile a seguire il modello paterno. I suoi sogni ancora infantili erano popolati dalle avventure dei cavalieri che aveva incontrato nella biblioteca di messer Leone, dotata di codici di valore6.
Talvolta Michele, sfuggito alla sorveglianza di precettore, familiari e servi, scappava per i vicoli a fare a botte e a sassate con gli altri ragazzini del popolo. Guai se fosse stato scoperto! <<Michele>> sbraitava suo padre furibondo, trascinandolo per le orecchie fin dentro casa <<lo volete capire o no che non dovete mischiarvi alla plebaglia? Se ci tenete tanto a fare a botte, allenatevi all’arte militare, avete un maestro apposta!>> <<Siete di nuovo andato a giocare con quei pezzenti?! Guardate come siete conciato!>> esclamava inorridita la madre. Michele taceva, cercando di non toccarsi le orecchie doloranti per apparire forte, anche se gli facevano un gran male. Puntualmente, quando le sue scappatelle venivano scoperte, il padre lo metteva in punizione, isolandolo nella sua stanza a pane e acqua.
Esitante, il ragazzo entrò nello studio del padre, una stanza piena di libri contabili e scartoffie. Notò con piacere che suo padre non sembrava affatto arrabbiato, anzi aveva un sorriso soddisfatto. Era un uomo ancora molto forte e piacente sebbene fosse sulla quarantina7, particolarmente alto rispetto alla media, moro con qualche filo ormai bianco, coi capelli lunghi sul collo, ben curati. Vestiva una giubba di seta bianca sopra una camicia di lino, brache e scarpe di cuoio morbido, che indossava in casa. Fece un cenno con la testa al figlio e gli disse di entrare. Michele, sempre un po’ intimidito, ubbidì e chiuse la porta dietro di sé.
<<Signor figlio>> disse Leone senza preamboli <<ho deciso che mi accompagnerete nel mio prossimo viaggio a Pisa, dovete cominciare ad imparare il mestiere. Gli affari di famiglia -non scordatevelo- un giorno vi saranno affidati e voglio che siate pronto quanto prima a prenderci confidenza. Ultimamente i commerci sono andati molto bene, tra due giorni mi accompagnerete a Pisa per vendere le nostre merci e acquistare spezie, conosco un mercante pisano che ci farà un buon prezzo. Con noi verranno solo messer Lorenzo e alcuni servi>>.
All’idea di fare quella “gita” Michele avrebbe voluto esultare, felicissimo di poter viaggiare, beandosi al pensiero di lasciare a casa per un po’ il suo insopportabile precettore e fare qualche bella esperienza. La malefica presenza di Trotula avrebbe guastato tutto! Come minimo il precettore, se fosse venuto con loro, sarebbe stato capace di farlo studiare durante le pause tra una cavalcata e l’altra e obbligarlo a ripetere le lezioni persino stando in sella. Che orrore!! Per un attimo Michele fu attraversato dalle immagini dei boschi e delle foreste che avrebbero attraversato. Posti simili erano spesso infestati da briganti che popolavano le avventure dei cavalieri e i racconti dei mercanti depredati; fortuna che ci sarebbe stato messer Lorenzo, il suo maestro d’armi. Michele si risollevò a quel pensiero. Lorenzo era una persona che ispirava fiducia ed era un eccellente combattente. Sicuramente avrebbe vegliato sulla loro sicurezza durante il viaggio.
Il ragazzo ricordava bene la prima volta che lo aveva visto: un giorno, all’età di sette anni, era stato chiamato da suo padre che gli aveva presentato colui che sarebbe diventato il suo maestro d’armi: Lorenzo da Terni, soldato di ventura al servizio del papa. Pochi lo sapevano, ma Lorenzo era uno dei rari ufficiali che si fosse guadagnato i gradi sul campo; era di umili origini, figlio e nipote di calzolai. Era sceso in battaglia per la prima volta a tredici anni come semplice soldato e aveva smesso a trentasei, dopo una buona carriera, finita con tante cicatrici addosso e un gruzzolo scarso in tasca, guadagnato durante il suo servizio, già quasi terminato quando era stato assunto dai Ridolfini.
Era l’unica persona che sapesse motivare il turbolento Michele senza bisogno di minacce o percosse. Lorenzo scoprì presto che il bambino aveva talento per l’arte militare e un particolare vantaggio: era ambidestro. Lo allenava diverse ore al giorno tra equitazione, rudimenti di lotta e vari tipi di combattimento, soprattutto con le armi doppie per allenare entrambe le braccia8. Sebbene Michele non avesse ancora sostenuto neppure un torneo con le armi cortesi9 a dodici anni era molto più forte rispetto ai coetanei, anche se lui stesso non sapeva di esserlo. Aveva preso parte solo ad alcune scazzottate tra ragazzi, di quelle in cui si forma una mischia furiosa in cui ci si deve spingere e colpire con tutta la forza per evitare di essere schiacciati; quello però era uno sfogo, non una prova di destrezza.
Un giorno, mentre si allenava con il maestro, trovatosi in difficoltà, si era scagliato con tutte la sua energia di adolescente contro l’avversario, che aveva parato tutti i colpi lasciando che si stancasse e quando alla fine Michele aveva cercato un affondo con le ultime forze, Lorenzo si era girato su se stesso e con uno sgambetto lo aveva mandato a gambe all’aria. In questo modo il maestro aveva iniziato a dimostrare all’allievo che la vera bravura non stava nel combattere accecato come un toro infuriato ma restare lucido pur tirando fuori tutta la potenza.
Il ragazzo aveva sempre desiderato il momento in cui il maestro l’avrebbe preparato a partecipare a un torneo ma finora Michele non l’aveva chiesto, consapevole di non essere ancora pronto.
<<Quale sarà il nostro itinerario, padre?>> chiese <<Dopo Civita passeremo da Bolsena, quindi faremo sosta a Siena. Da lì raggiungeremo Colle Val d’Elsa, San Gimignano, infine Empoli. Faremo sosta durante le fiere e staremo via una ventina di giorni per vendere le tele di lana e i cuoiami. Porteremo con noi solo alcuni servi atti a maneggiare le armi.>> rispose Leone.
<<Immagino sia stato messer Lorenzo a sceglierli.>>
<<Pensate bene, figlio. Il vostro maestro sa il suo mestiere. Nello sciagurato caso che qualcuno voglia derubarci dovremo essere pronti a difenderci>>.
<<Devo fare qualche preparativo particolare?>>
<<Sì>> l’espressione del padre si fece severa <<Ripassatevi bene quanti più vocaboli di latino e provenzale. Fatevi dare qualche lezione supplementare da messer Trotula, in questi due giorni. Partiremo dopodomani all’alba>>
Oh no! pensò Michele disperato, figurandosi già le ore insopportabili sotto le mani del precettore: non era granché come allievo.
Leone continuò <<Siete abituato a vivere in una piccola città e non avete idea di quante lingue si parlino nel mercato di posti come Pisa. Tra noi mercanti parliamo una lingua che è un misto di latino, provenzale e toscano. Quando però i documenti degli acquisti vengono redatti sono scritti in doppia versione nella lingua madre del posto e in questa sorta di idioma, quindi voglio che siate preparato a riconoscerne il maggior numero di vocaboli. Inoltre ho saputo che ultimamente non siete andato tanto bene in aritmetica. Ripassatevi anche quella: quando saremo a Pisa controllerò che siate in grado di gestire almeno parte della contabilità. Non fate errori! >>.
<<Come volete>> sospirò Michele abbassando la testa.
<< E adesso tornate a studiare>>.
Michele salutò silenziosamente e si ritirò chiudendo la porta. L’idea di occuparsi della contabilità sotto il rigido controllo paterno non gli piaceva per niente, ma era un prezzo che sapeva di dover pagare. Per lui l’importante era poter viaggiare. Era un ragazzo curioso e voleva vedere il mondo fuori dalle mura della città dov’era cresciuto.
La giornata proseguì con lo studio raddoppiato, ma il ragazzo sopportò abbastanza bene la fatica. Nella sua stanza, davanti al becero Trotula (che non gli lasciava mai passare neppure il minimo sbaglio), si sforzò di non farsi prendere dall’ansia. sciorinando con voce atona verbi latini, mandando a memoria frasi lunghe e noiose e affrontando calcoli complicati.
Quando a un certo punto la stanchezza prese il sopravvento, prese a impappinarsi mentre ripeteva meccanicamente: <<Laudo, laudas, laudat…>> di colpo non ricordò nulla. Riprovò ma s’impappinò di nuovo. Allora tacque imbarazzato e guardò Trotula con aria interrogativa e spaventata, sapendo di non avere scampo. <<Laudamus, laudatis, laudant!>> gli urlò in faccia Trotula, tirandogli uno schiaffo, che Michele scansò prontamente. Il precettore si agitava rabbioso sulla sedia <<Siete un incorreggibile sfaticato! Per voi ci vorrebbe la frusta! Studiate, invece di andare a fare a sassate!>> Michele fece un lungo sospiro ma restò calmo pensando che, con un po’ di pazienza, non avrebbe più rivisto per un pezzo quell’individuo.
Capitolo 2
All’alba del 15 marzo Michele, dopo una notte quasi insonne per l’eccitazione della partenza, scese nel cortile dove era già pronto il carro. I servi avevano già caricate le merci e le provviste per il viaggio, suo padre stava controllando che tutto fosse ben sistemato. Il maestro, che aveva scelto e curato le armi, consegnò a Michele una spada di lunghezza media ben temprata (il ragazzo non era molto alto e non avrebbe potuto maneggiare bene armi pesanti o troppo lunghe) e una daga10. Tutto era pronto per la partenza. Sua madre, già abbigliata con eleganza e sobrietà, il capo coperto da un velo orlato d’argento, li osservava dalla finestra della sua stanza e li salutò con un cenno e un’ombra di sorriso. Michele accarezzò Brutus, il suo grosso molosso nero, poi tutti montarono chi a cavallo e chi a cassetta. Il carro si mosse, trainato da quattro cavalli bassi e robusti. Del lungo viaggio Michele avrebbe ricordato alcune soste nelle stazioni di cambio, mentre i servi chiacchieravano con le cameriere e suo padre mangiava silenzioso con lui e il maestro; i letti infestati di cimici, l’odore delle stalle e la neve sulla cima dell’Amiata; ma anche momenti di allegria nelle fiere.
Durante il giorno restava a fianco del padre per vendere le merci e tenere la contabilità. Dopo il lavoro, se si era comportato bene, suo padre gli permetteva di passeggiare per le strade, sempre sorvegliato da Lorenzo. Michele camminava spensierato, respirando a pieni polmoni l’aria fresca che gli scompigliava i capelli; curiosava per le botteghe sempre aperte11 di fabbri, candelai e altri artigiani. Annusava l’odore dei cibi cotti per strada e delle spezie usate per condirli, aveva anche imparato a gustare le trippe12. A volte si lasciava trascinare dall’allegria generale e chiedeva al maestro: <<Potrei fermarmi a ballare?>>allora Lorenzo lo lasciava andare e restava in disparte ad osservarlo. Michele si univa agli altri giovani nelle piazze, danzando in cerchio, cantando al suono di flauti e tamburelli; talora si soffermava davanti alle botteghe dei fabbricanti di strumenti musicali che, seduti accanto alla bottega, suonavano i loro liuti o le mandole13. In particolare ricordava di aver udito, una volta, un cantore al liuto dotato di una splendida voce che intonava un canto affascinante. Sentì qualcuno dei presenti dire che il cantore si chiamava Simone e veniva da Urbino.
Il ricordo più vivo restò a lungo quello di Lorenzo che, poco prima di arrivare a Pisa, cominciò a raccontare gli anni del suo servizio a seguito del papa. Era successo una sera in cui non avevano trovato riparo e dormivano chi sul carro e chi per terra davanti al fuoco del loro bivacco. Lorenzo raccontava di aver preso parte a mille sanguinose battaglie e inseguimenti. <<Sono caduto anche in tante imboscate, sapete? Ogni volta che si combatte si rischia la vita. Durante l’ultimo scontro un nemico mi aveva colpito al fianco. Sono riuscito a ucciderlo ma la ferita era tanto grave da indurmi a chiedere l’estrema unzione. Me la sono cavata grazie al medico che me l’ha cauterizzata quasi subito, mi disse che pochi si sarebbero salvati al posto mio e che avevo una fibra forte>>.
Michele l’aveva ascoltato tutt’orecchi, figurandosi le scene di battaglia e chiedendosi se un giorno anche lui sarebbe stato coraggioso come il suo maestro. Sdraiato a terra e avvolto in una coperta aveva guardato Lorenzo, seduto accanto a lui, che faceva il primo turno di guardia. <<Maestro, un giorno vorrei diventare come voi!>> aveva detto con sincera ammirazione. Non si riferiva solo all’abilità nel combattimento, ma anche alle doti umane. Lorenzo sembrava a Michele l’unico adulto capace di comprendere la sua vivacità, di valorizzarlo in qualche modo. Sebbene facesse faticare molto Michele durante gli allenamenti e colpisse forte, non lo umiliava se non riusciva in qualcosa: lo faceva riprovare incoraggiandolo con lo sguardo e lo gratificava con una parola di apprezzamento o un colpetto sulla spalla quando lo vedeva impegnarsi.
Il maestro, preso alla sprovvista da quella frase piena di ammirazione, dapprima guardò Michele con tanto d’occhi -non si sarebbe mai aspettato parole simili – poi, ripresosi dalla sorpresa, disse: << Michele, vi sono grato per la considerazione… ma parlate così perché non sapete cosa siano la guerra, la fame, le intemperie, l’ubbidienza incondizionata a ordini ripugnanti. Io posso addestrarvi a diventare un buon combattente ma nessuno può dire se sarete in grado di affrontare una battaglia. Del resto è ancora presto per dirlo, di solito l’età per combattere è di quindici anni. Io mi sono arruolato a tredici, ero alto e forte e mi hanno preso nell’armata senza far caso all’età. Dopo che mio padre perse la bottega,volevo scappare dalla fame continua, ma dopo l’arruolamento la disciplina e gli stenti raddoppiarono. Voi siete ricco, avete sempre la pancia piena e non avete freddo: non sapete cosa sia farsi tutta una notte di guardia col gelo che vi entra nelle ossa, marciare una giornata a tappe forzate con un equipaggiamento pesantissimo14, mangiare persino le erbe, dover mettere il cappio al collo di un commilitone che ha cercato di disertare. Siete un ragazzo in gamba e sapete ubbidire, anche se non vi piace studiare. La vita del cavaliere, diversa da quella del soldato di ventura, vi affascina ma datemi retta: è meglio aspettare prima di decidere se è meglio la vita del ricco mercante o del cavaliere. Ora vi pesa la disciplina che vi è imposta, ma non sapete quanto sia dura quella nell’esercito. Per adesso farete le vostre esperienze, poi si vedrà>>.
Arrivati a Pisa i viaggiatori andarono al mercato che si trovava nei pressi del porto. Lì Michele restò senza fiato al vedere tutta quella gente di ogni nazione contrattare a voce alta merci di tutti i tipi, nel frastuono delle voci, nella varietà dei colori, nel mescolarsi degli odori, mentre il mare brillava in lontananza.
Essendo cresciuto in Umbria non l’aveva mai conosciuto. Alla vista di quella distesa azzurra in movimento si impressionò e sentì battergli forte il cuore. Inspirò l’aria salmastra, quell’odore che non conosceva (lui era abituato a nuotare nel fiume). Improvvisamente il ragazzo si sentì del tutto sperduto in quel mondo completamente nuovo e cercò con gli occhi il padre. Leone, che non si era accorto dello spaesamento del figlio, dava disposizioni ai servi senza preoccuparsi di lui, dandogli le spalle. Poi lo chiamò e gli annunciò : <<Adesso andremo ad acquistare spezie da messer Duccio Gentili. Tenete le orecchie aperte e la bocca chiusa, siate rispettoso.>> Al sentirsi ordinare di essere “rispettoso” Michele, mentre stava scoprendo un mondo che prometteva nuovi orizzonti, sentendosi trattare da ragazzino maleducato, avrebbe voluto rispondere che per tutto il viaggio non aveva mai creato problemi ed era stanco di essere considerato solo un marmocchio da ammonire, ma tacque annuendo, sapendo di non poter fare diversamente con suo padre.
Quando i due mercanti si incontrarono, contrattarono nel volgare italiano: Michele afferrava perfettamente il senso della discussione ma si stupiva di come riuscissero ad accordarsi con rapide trattative sul valore delle merci. Leone acquistò soprattutto zafferano e pepe (le spezie più comunemente usate per i cibi15) ma anche spezie orientali più pregiate come cinnamomo, curcuma e coriandolo. Quando fu steso il contratto d’acquisto Leone fece avvicinare Michele e glielo fece leggere perché si abituasse anche agli aspetti legali del mestiere.
Salutato Duccio, Leone e Michele andarono ad acquistare del broccato da un mercante provenzale, Daniel Arnaut. Qui Michele faticò a comprendere il dialogo: il mercante parlava velocemente e le sue orecchie non erano abituate a quella lingua, che pure conosceva nella scrittura dei trovatori; quando però lesse il documento d’acquisto si rassicurò: capì quasi tutto il testo del documento, doveva solo abituarsi di più al suono del provenzale, solo alcune parole gli restarono oscure. Terminata anche questa trattativa le merci furono caricate sul carro e iniziò il viaggio di ritorno.
Capitolo 3
Il viaggio di ritorno proseguì spedito, con meno soste. Nei pressi del lago di Bolsena, il gruppo dovette passare col carro attraverso una zona boscosa e deserta che terminava in una strettoia. Si stava facendo sera ma c’era ancora luce. Lorenzo sentì che il suo istinto di soldato gli diceva di fermarsi subito, in quel passaggio avrebbero potuto cadere in un’imboscata. Si sentiva nervoso e, a un tratto, fu certo di aver visto muoversi qualcosa fra gli alberi. Affiancò subito il cavallo di Leone e gli disse “Messer Ridolfini, sono sicuro che qualcuno ci stia seguendo. Dobbiamo tornare indietro immediatamente…” Non fece in tempo a finire la frase che una freccia si piantò su un fianco del carro, mentre un gruppo di tre armati a cavallo bloccava la strettoia e altri cinque a piedi uscivano dalla boscaglia. Erano sicuramente ex soldati di ventura, a giudicare dalle armi (tutti armati di spade e pugnali, alcuni anche di picca e uno di balestra, che li sorvegliava da un lato della boscaglia), vestiti di un berretto di cuoio e abiti grossolani. A giudicare dalla statura e dai lineamenti dovevano essere tedeschi o fiamminghi.
A Leone venne quasi un colpo. Sembrava che avesse visto dei fantasmi, divenne terreo e cominciò a sudare freddo.
Mio Dio pensò siamo stati presi in trappola! Sa il Cielo cosa possono fare quelle belve, pur di rubare qualche moneta o soltanto i nostri vestiti e i cavalli!
Le truppe mercenarie, in particolare quelle sbandate, erano ben note per la loro ferocia. Anche gli altri servi erano spaventati ma restarono al loro posto, fermando i cavalli. Michele era il più spaventato di tutti ma non si mosse, sforzandosi di mantenere un atteggiamento impassibile.
Invece Lorenzo sembrava tranquillo. Con la massima calma, il maestro d’armi mise il cavallo al passo e lentamente avanzò, seguito a breve distanza da un servo, Guglielmo. Si portò verso il gruppo che sbarrava la strettoia e si rivolse ad un gigante biondo e barbuto che sembrava il capo: <<Sbaglio o noi ci siamo già visti, Guarniero di Baviera? Se non ricordo male deve essere stato quando avete combattuto con Ambrogio Visconti16 nei pressi di Perugia, circa sette anni fa.>>
<<Non vi sbagliate signore, all’epoca io ero un luogotenente di Ambrogio, mentre voi eravate tra gli ufficiali dell’esercito nemico. Il nostro capitano però non ci ha pagato a sufficienza, così ora dobbiamo provvedere da soli al nostro mantenimento in attesa di un altro ingaggio>> rispose l’altro con un forte accento germanico. Poi proseguì sogghignando: <<Oggi come allora non siamo dalla stessa parte, Lorenzo da Terni. Tuttavia sarò generoso e risparmierò le vostre vite se ci consegnerete tutti i cavalli, il denaro e le armi>>
<<E io vi faccio una controproposta: voi adesso ci lasciate andare e nessuno si farà male>>
Per tutta risposta l’altro estrasse la spada. Lorenzo fu più rapido di lui e lo colpì al braccio armato ferendolo gravemente. Guarniero lanciò un urlo e cadde di sella, mentre Guglielmo, affiancatosi a Lorenzo, si batteva al suo fianco contro i due avversari a cavallo. Contemporaneamente un servo nascosto nel carro centrò in pieno con l’arco l’uomo armato di balestra. I soldati credevano di avere di fronte solo dei viaggiatori inermi, mentre in realtà tutti i servi di Leone erano stati addestrati a maneggiare bene la spada e avevano già un piano ben chiaro per reagire in caso di attacco. Lorenzo e il suo compagno fecero fuori i due uomini a cavallo e si precipitarono sui banditi appiedati, mentre Guarniero, a terra, urlava imprecazioni nella sua lingua. Ma i due armati di picca non si fecero sorprendere e infilzarono i cavalli, sbalzando i cavalieri a terra. Badando a non perdere la spada, nella caduta Lorenzo rotolò su se stesso, si rialzò e si lanciò contro i picchieri insieme a Guglielmo. Leone e Michele si erano barricati dietro il carro, mentre gli altri servi si lanciarono all’attacco, armati di spada, decisi a vendere cara la pelle. Leone stesso prese un arco e con un tiro preciso uccise un picchiere, mentre Lorenzo e Guglielmo, a fatica, finalmente uccisero l’altro.
A quella vista, quando vide formarsi una mischia furiosa, Michele non più fu capace di rimanere fermo e si precipitò anche lui a dar man forte agli altri. Leone urlò al figlio di restare al riparo ma fu completamente inutile. Guarniero, nonostante la grave ferita al braccio, riuscì a rialzarsi e nella mischia cercò Lorenzo, lo trovò mentre gli dava le spalle e con la sinistra alzò la spada per colpire. Proprio in quell’attimo Michele si frappose fra i due, cercando di parare con la spada il colpo di Guarniero e di colpirlo al ventre con la daga. Il fendente del bavarese, tirato dall’alto in basso, era però molto superiore alle forze di Michele che non riuscì a pararlo bene, non potendo muoversi nella mischia per schivare del tutto. La spada del mercenario, che avrebbe potuto spaccargli la testa, scivolò sulla sua parata, ma gli si abbatté tra la spalla e il braccio, piantandosi nelle ossa e fratturandole. Il sangue zampillò dalla ferita, Michele cadde sulle ginocchia urlando di dolore ed ebbe la sensazione di cadere in un pozzo, poi crollò a faccia in giù. Lorenzo intanto si era girato e aveva trapassato con la spada il suo avversario colpendolo di punta. Vedendo il loro capo morire, gli altri soldati, sbaragliati, fuggirono.
Il cadavere di Guarniero era caduto proprio sopra Michele. Lorenzo spostò con un calcio il corpo del mercenario e s’inginocchiò accanto al ragazzo, lo rigirò, gli sollevò la testa e chiamandolo con un misto di rabbia e dolore urlò: <<Michele, maledetto incosciente, l’ordine era di non muoversi qualunque cosa fosse successa!>>. Michele non lo sentiva. Era ancora privo di sensi e la ferita continuava a sanguinare copiosamente. I servi, raggruppati attorno a loro videro Leone avvicinarsi con un viso senza espressione, incerto sulle gambe e quasi paralizzato alla vista del figlio così ridotto. Lorenzo, che aveva capito subito la gravità della situazione, si rialzò e diede ordine ai servi di non toccare il ragazzo ma coprirlo e rivoltosi al padre disse: <<Aspettate qui, non vi muovete, i servi faranno la guardia mentre io andrò a cercare aiuto>>. Leone, ancora incapace di reagire, si limitò ad annuire e a chiamare i servi. Lorenzo balzò a cavallo e corse via al galoppo, mentre la notte scendeva sul gruppo già spaventato e ancora confuso, in attesa di un miracolo.
Dopo pochi minuti però sentirono il rumore di cavalli in corsa. Leone si mosse verso la strettoia per capire chi fossero i nuovi arrivati. Lorenzo, appena uscito dal bosco, si era imbattuto in una piccola comitiva di viandanti, composta da un uomo vestito di una giubba di cuoio e calzoni marroni, accompagnato da una ragazza adolescente vestita di un abito grigio, dai capelli rossi che sbucavano sotto la cuffia. I due bivaccavano poco distante da loro, avevano due cavalli e un mulo carico dei loro bagagli legati poco distante. Lorenzo aveva cercato di sorpassarli per non perdere tempo, spiegando concitato che stava cercando aiuto per soccorrere un ferito grave.
L’uomo invece di spostarsi, avanzò verso di lui e disse: <<Siamo medici, portateci dal ferito. Abbiamo sentito i rumori della battaglia e visto la mischia da lontano, ma avevamo troppa paura di essere coinvolti e non ci siamo avvicinati>>.
Appena giunto, il medico gridò: <<Presto, prendete delle bende e tutto il vino che riuscite a trovare!>>. I servi esitarono un attimo, ancora confusi, poi Leone urlò: <<Sentito? Muovetevi!>>. Il medico, aiutato dalla ragazza, in silenzio perché tra loro non c’era bisogno di parole, tamponò la ferita, aspettò che l’emorragia si arrestasse poi, al momento di cambiare le bende, la disinfettò col vino17 ed erbe medicinali. Michele era sempre privo di coscienza.
Intanto i servi avevano allestito un bivacco e preparato la cena. Leone si avvicinò loro e con voce spenta disse brevemente con il suo modo risoluto: <<Signore, vi ringrazio per quanto state facendo per mio figlio. Non ho chiesto neppure i vostri nomi. Mangiate con noi e riposate, vi daremo il cambio>>. Il medico e la ragazza accettarono. Lui era un uomo di media statura non più giovane, scuro di carnagione, dai tratti del viso molto marcati, mentre la fanciulla non gli somigliava affatto con la sua pelle chiara, che si illuminava ai riflessi delle fiamme del bivacco, facendo risplendere anche i rossi riccioli che sfuggivano al mantello con cui si proteggeva dall’umidità della notte.
Dopo aver steccato con dei rami spalla e braccio di Michele sedettero accanto al fuoco. <<Veniamo da Salerno, mi chiamo Giuseppe di Matteuccio e lei è mia figlia Diotima, anche lei presto sarà medico18>>. Diotima annuì in silenzio. Dimostrava circa quindici anni e si muoveva in modo estremamente timido e riservato, pur nella sicurezza dei gesti.
<<Avevo sentito parlare della scuola salernitana, è molto famosa>> disse Leone. Poi aggiunse, dopo un attimo di esitazione: <<Credete che mio figlio se la caverà?>>
<<La ferita è grave e ha perso molto sangue ma siamo riusciti a ricomporre la frattura e a fermare l’emorragia. Tuttavia non siamo sicuri di poter evitare l’infezione. Devo dirvi con molta franchezza che potrebbe perdere un braccio nel caso le ossa non riuscissero a ricomporsi o si presentasse una necrosi. Tuttavia non disperate, se vostro figlio si risveglierà gli darò delle pozioni contro la febbre. Avrà dolori fortissimi, quindi per almeno un po’ di tempo non dovrete muoverlo, gli scossoni del carro potrebbero peggiorare la ferita.>>
La mattina dopo Michele si svegliò gemendo di dolore e, credendo di trovarsi ancora nella mischia e di vedere Lorenzo in pericolo, esalò col poco fiato che gli restava <<Attento, dietro di voi…!>>
<<Sono qui Michele, state calmo, è finita!>> gli disse Lorenzo. Leone, quando sentì Michele parlare, gridò: <<Guardate come vi siete ridotto, per la vostra disubbidienza! A casa faremo i conti!>> e coprì il figlio ancora confuso e dolorante di accuse e rimproveri, ma in realtà era come se gli stesse dimostrando tutta la paura che aveva avuto per lui.
Capitolo 4
I medici si presero cura di Michele che per tutti i tre giorni successivi fu tormentato da dolori atroci ma non perse mai coscienza né ebbe la febbre. Al quarto giorno, visto che nonostante i dolori non c’era infezione il viaggio stava per riprendere. La sera (sarebbero ripartiti l’indomani mattina presto) Leone chiese al medico dove fossero diretti lui e la figlia. <<Per la verità non abbiamo una meta precisa, signore. Cerchiamo di metterci al servizio di qualche nobile locale>>. <<Sentite>> gli disse Leone <<se volete potrei farvi avere la patente19 dal podestà di Narni. Nella nostra città non trovereste praticamente concorrenza vista la vostra bravura e la mancanza di buoni medici e sarete miei ospiti finché non vi sarete sistemati>>. L’altro accettò con gioia e assieme a sua figlia si unì ai nuovi compagni di viaggio.
Quando il gruppo fu rientrato in città da Porta Ternana, Leone trovò i suoi figli più piccoli che giocavano nel cortile davanti alla casa. Il piccolo Cassio gli andò incontro festoso, mentre Giovanna correva ad annunciare alla madre il suo ritorno. Costanza attendeva nelle sue stanze ai lavori usuali, aspettando che Leone salisse come sua abitudine a salutarla, questa volta insieme al figlio. Non vedendoli arrivare, ma sentendo voci concitate nel cortile, decise di scendere. Si fece sulla soglia come sua abitudine restando estremamente composta e riservata, ma quando vide Michele deposto giù dal carro ferito, debolissimo e quasi incapace di reggersi in piedi, intuendo cos’era accaduto impallidì, si portò una mano al volto e disse:<<Cos’è successo?!>>.
Per la prima volta in vita sua Michele vide con meraviglia sua madre preoccupata per lui. Dopo che ebbero sistemato il ragazzo nella sua stanza, assistito dalla governante, Leone raccontò ai famigliari cos’era successo e presentò loro messer Giuseppe e sua figlia Diotima.
Al momento del pranzo, su suggerimento del medico Costanza ordinò alla cuoca: << Agata, prepara per Michele una “stracciatella”, deve rimettersi in forze!>> La “stracciatella” una zuppa con uovo, formaggio, pepe e zafferano mescolati assieme. Michele si sentì oggetto di attenzione come mai prima di allora.
Suo padre continuava a brontolare <<Spero che quanto accaduto vi serva di lezione! Ve la siete cercata quando siete stato ferito in quello scontro!>> Lorenzo invece sembrava ottimista: <<Quando sarete guarito, Michele, potrete partecipare a quintane e giostre d’armi: avete dimostrato di avere coraggio. Se foste riuscito a muovervi meglio in quella mischia non sareste neanche stato ferito, avreste potuto schivare il colpo>>. Messer Giuseppe, che l’aveva sentito, disse: <<Aspettate a parlare di tornei, signore. Ci vorranno mesi prima che quella spalla guarisca del tutto, e non so dire se ed eventualmente quando il ragazzo potrà combattere>>. A quelle parole Michele si incupì. Faticava a mangiare e a restare con la schiena dritta in posizione seduta, la ferita gli faceva ancora male. Sperò ardentemente di cavarsela e pregò dentro di sé San Giovenale20 che lo aiutasse a guarire presto. Per un lungo momento ebbe paura di rimanere con il braccio atrofizzato, ma scacciò il pensiero gustando il piatto di minestra che era stato preparato apposta per lui.
Passarono i mesi.
Il medico Giuseppe e la figlia si erano sistemati presso il farmacista messer Giorgio, vedovo da qualche tempo, che aveva sopra la bottega nel terziere di Fraporta, con un grande appartamento che aveva deciso di condividere con i nuovi arrivati in cambio della loro collaborazione. Diotima aveva conosciuto suo figlio, Giacomo, un ragazzo simpatico di cui aveva imparato ad avere fiducia e confidenza. Era un ragazzo piuttosto alto, dagli occhi verdi, moro, dotato di un carattere particolarmente sensibile ed espansivo che faceva sentire a proprio agio chiunque gli parlasse. Diotima non dava confidenza a nessuno se non a suo padre, ma col tempo le battute di Giacomo finirono col farla sorridere. Da lì cominciò a non fuggire più davanti a lui, ma a fidarsi. Giacomo era una persona molto mite e attenta, si era accorto che Diotima aveva un mondo tutto suo fatto di studio e doveri, ma aveva anche una sensibilità pari alla sua e voleva conoscerla meglio, anche se tra loro parlavano quasi esclusivamente dei loro studi.
Un mattino, dopo la messa, mentre mangiavano, Giacomo raccontava un aneddoto su Aristotele. Il grande filosofo che era stato anche precettore di Alessandro Magno a Mieza, dove venivano istruiti il giovane Alessandro e i figli dei nobili macedoni. Secondo alcuni autori greci talvolta il filosofo impartiva lezioni singole al solo Alessandro. <<Sapete che vi dico, cara Diotima? A mio dire Alessandro non capiva nulla di quanto Aristotele spiegava ai ragazzi, così era costretto a farsi rispiegare tutto daccapo con la scusa di lezioni singole! Chi ci dice che Alessandro, fulmine di guerra, da ragazzo non fosse un asino?>> Diotima ridacchiò. <<Perdonatemi, Diotima, so di essere troppo audace… ma quando sorridete un raggio di luce illumina i vostri occhi. Vi vedo sempre seria, sarei felice di vedervi sorridere più spesso>> disse Giacomo con occhi ridenti. Diotima non rispose, ma da quel giorno cominciò a mostrarsi più lieta e serena.
Fra i due finì per nascere un timido sentimento di affetto. Messer Giorgio e messer Giuseppe avevano imparato presto a stimarsi e si erano messi in società: aiutati dai rispettivi figli mandavano avanti la bottega e curavano i malati ciascuno secondo le proprie competenze. Diotima continuava ad avere un atteggiamento timido e riservato con tutti tranne che con Giacomo, l’unico con cui sembrava aprirsi e ritrovare la parola e l’allegria.
La ferita di Michele guarì, pur lasciando una deformità che avrebbe limitato, sia pure in parte, l’uso della spalla sinistra. I problemi arrivarono nel momento in cui vennero tolte stecche e bende: il braccio aveva perso completamente il tono muscolare a causa dell’immobilità, era diventato sottile come uno stecco e sembrava quasi completamente bloccato. Il ragazzo, già stufo dopo settimane e mesi in cui era stato obbligato a rimanere fermo, durante i quali aveva avuto l’unica compagnia del suo insopportabile precettore, non ne poteva proprio più. Vedendo quel braccio rattrappito, ridotto a pelle e ossa, inorridì e gemette:<<Che orrore! Rimarrò storpio per sempre e non potrò più toccare una spada!>> <<Non dite sciocchezze!>> lo riprese il medico, che pure comprendeva la sua rabbia. Poi aggiunse, con tono pacato: <<Ci vorrà tempo prima che il vostro braccio torni normale dopo che è stato fermo tanto a lungo, ma a parte quella lieve deformità alla spalla non vedo alcun problema nell’osso, potrete recuperare il braccio! Ora state attento a non sbattere mai e cercate di ricominciare a muovere il braccio con la calma più assoluta o vi farete molto male. Vedrete che, se sarete paziente, andrete a fare la prossima giostra dell’arme a San Gemini>>.
Michele taceva. Sebbene stimasse molto quell’uomo che aveva praticamente compiuto un miracolo curando la frattura ed evitandogli un’amputazione, dubitava seriamente di riprendere l’uso dell’arto, figurarsi di maneggiare un’arma. La mancanza degli allenamenti lo fece intristire ancor di più di nostalgia.
Ora Lorenzo allenava solo Cassio, ma il piccolo aveva un carattere diverso da Michele: non gli piacevano gli allenamenti e frignava a ogni colpo ricevuto, non tanto per il dolore quanto perché non riusciva ad affrontare il disagio causato dall’opporsi all’avversario o dal non riuscire a padroneggiare la tecnica. In compenso il bambino, dotato di ottima memoria ed essendo molto più arrendevole del fratello, sembrava essere diventato il prediletto del precettore Trotula, che non perdeva occasione di punzecchiare Michele vantandone i meriti. <<Vostro fratello è un ragazzo molto più capace di voi, senza dubbio più ubbidiente e tutt’altro che uno squinternato cercatore di risse quale voi siete!>> ripeteva Trotula sogghignando.
Un giorno Michele, stufo di questa insopportabile situazione, andò nello studio di suo padre e disse con la massima serietà: << Padre, domani compirò tredici anni. Vorrei andare a studiare a Roma dallo zio monsignor Luigi>>. Lo zio era un prete che insegnava in una scuola di agostiniani molto rinomata cui accedevano i figli delle più importanti famiglie. Davanti a quella richiesta tanto ferma Leone restò per un attimo sbalordito, poi disse: <<Come volete. Vi avrei mandato comunque a Roma fra uno o due anni per completare la vostra istruzione, ma se lo chiedete potrete partire tra una settimana, giusto il tempo di avvertire lo zio e fare i preparativi. Siete sicuro di sopportare le fatiche del viaggio?>>
<<Penso di sì…>> disse Michele, che cercava di nascondere la sua esitazione.
<<Bene, allora andate da messer Giuseppe e fatevi dare qualche consiglio per evitare problemi al braccio. Ma ditemi: perché volete andare a Roma proprio ora?>>
Michele, temendo di parlare liberamente, riferendo dei continui raffronti tra lui e Cassio fatti dal precettore durante le lezioni, disse: <<Ebbene, non credo che messer Trotula abbia più molto da insegnarmi, poiché ormai ho raggiunto con lui il livello per entrare nel collegio di Roma>>. In verità Michele, temendo di non potere più allenarsi con Lorenzo, aveva un motivo in più per allontanarsi da Narni. Riteneva perciò necessario andare a cercare altrove una buona istruzione e non sentirsi inutile.
Leone assentì con un cenno e Michele si congedò, poi andò da Lorenzo per comunicargli l’accordo raggiunto col padre. Il maestro lo guardò tranquillamente negli occhi e gli disse:<<Michele, voi state scappando dal dolore, ma non è allontanandovi da casa che troverete la soluzione. Sicuramente a Roma potrete migliorare la vostra istruzione, ma non è solo l’istruzione che cercate. Voi desiderate tornare in condizioni tali da affrontare un’altra avventura, magari come quella che abbiamo vissuto ma avete perso le speranze di tornare sano. Se volete andare a Roma io non vi fermerò ma vi do un consiglio: quando sarete là cercate la scuola d’armi del maestro Vittore di Morando. Siamo stati compagni d’arme e lui è un ottimo spadaccino e un bravo maestro. Anche se non sarete in grado di maneggiare una spada vi dico di andare tutti giorni nella sua scuola e assistere agli allenamenti. È la vostra mente che si deve allenare adesso. Dovete ricordare chi eravate e cosa sapevate fare. Allenate sempre il braccio sano, e quando il vostro braccio ferito sarà migliorato, prenderete un giunco e vi eserciterete con quello come fosse una spada. Man mano che il vostro arto migliorerà aumenterete il peso del giunco o del ramoscello che terrete in mano. Verrà il giorno in cui sarete di nuovo in grado di usare una spada. Lo garantisco.>>
<<Credevo che mi avreste dato del vigliacco quando mi avete detto che scappavo dal dolore>> disse Michele.
<<Se vi avessi considerato un vigliacco ve l’avrei già detto, ma voi non lo siete>> rispose Lorenzo <<semplicemente, l’ambiente di casa vi sta stretto e il problema al braccio vi sembra insormontabile>>.
Il ragazzo si rilassò e aggiunse sorridendo:<<Non andateci troppo pesante con mio fratello Cassio!>>
<<Probabilmente>> disse Lorenzo <<Cassio migliorerà proprio quando non ci sarete più voi e non si sentirà più in competizione con un fratello che lo ha tenuto in ombra, anche se involontariamente>>.
Qualche giorno prima di partire, con la scusa di andare da messer Giuseppe a farsi controllare la spalla, Michele andò di nascosto a salutare i ragazzi con cui aveva condiviso le battaglie a sassate nei vicoli. In particolare alcuni di loro erano dispiaciuti, i quattro figli di un modesto artigiano. Si chiamavano Stefano, Tommaso, Paolo e Luca e avevano un’età fra i dodici e gli otto anni. Il piccolo Luca gli chiese:<< Michele, è vero che siete rimasto ferito combattendo contro dei briganti?>> <<Sì, e devo dire che me la sono vista brutta>>. <<E’ vero che avete rischiato di morire?>> chiese Stefano con aria serissima <<Sì, sono rimasto privo di coscienza per un bel po’ e la perdita di sangue avrebbe potuto uccidermi. È già un miracolo se non mi hanno dovuto amputare il braccio. Purtroppo la spalla resterà rovinata, ma dicono che potrò tornare a usare la spada>>. I quattro fratelli guardarono con ammirazione quel ragazzo che aveva giocato con loro azzuffandosi di brutto con gli avversari prima di essere scoperto e riportato a casa, tenuto per le orecchie da qualche servo o dal padre infuriato. Ai loro occhi quel braccio così malmesso, quella ferita di guerra, appariva un simbolo di coraggio. <<Tornerò comunque a casa per le feste>> disse loro Michele <<ci rivedremo>>. Li salutò e andò dal medico.
Messer Giuseppe visitò Michele e sentenziò che era in grado di viaggiare, sia pure con le soste necessarie per evitare di affaticarsi troppo. Per il viaggio a Roma sarebbe occorsa una carrozza, non poteva ancora tenere le redini di un cavallo. Michele, dopo avere stretto l’avambraccio del medico21, salutò anche Giacomo e Diotima. Si trovavano da soli nella parte posteriore della bottega. Dopo quest’ultimo congedo Michele si sentì immensamente triste: anche se era stato lui a voler lasciare la città, sapeva che gli amici gli sarebbero mancati tantissimo. <<Diotima>> disse alla ragazza <<sono certo che diverrai un ottimo medico>> avrebbe voluto abbracciarla ma sarebbe stato sconveniente. <<Giacomo, amico mio, stammi bene. Ogni tanto scrivetemi>> disse all’altro, dandogli una gran pacca sulla schiena22.
Capitolo 5
Dopo sei anni a Narni tutto scorreva tranquillo nella casa dei Ridolfini a Mezule.
Giovanna era promessa sposa al conte Ludovico Mancinelli e presto si sarebbero celebrate le nozze. Diotima e Giacomo si erano sposati qualche tempo prima. Prima del matrimonio Giacomo era partito per un lungo viaggio di studio a Costantinopoli23, dove aveva appreso molti elementi della medicina e farmacopea bizantina e araba, più sviluppata di quella europea, che gli aveva permesso di accrescere molto la sua competenza in fatto di medicamenti, e ne possedeva alcuni rarissimi, così che la sua bottega cominciò a essere frequentata anche da nobili d’alto rango.
Ormai lui e Diotima mandavano avanti da soli la bottega di famiglia. Messer Giorgio, il padre di Giacomo, colpito da febbri violente, era morto l’inverno precedente e messer Giuseppe aveva preferito mettersi da parte, lasciando l’attività ai giovani.
Nel nuovo ambiente fin dall’inizio Diotima non era stata accettata come medico, ma guardata con sospetto perché donna. Lontana dalla scuola di Salerno, aveva rischiato di essere considerata una strega dal popolino, visto che maneggiava erbe, infusi poco conosciute dai più semplici che si limitavano a usare i rimedi più comuni è facilmente reperibili fra i minerali e la flora locale, o nei mercati vicini. In particolare le donne del ceto più basso, curatrici e levatrici provenienti dal contado che usavano rimedi empirici tramandati di madre in figlia, pagate dai più poveri spesso in natura, si erano sentite messe in ombra.
Diotima era una giovane donna che sapeva leggere ed era esperta in molte pratiche mediche, e sembrava conoscere i rimedi per molti mali, anche quelli considerati inguaribili. La giovane si muoveva con discrezione ma con sicurezza ed evitava i luoghi affollati e il mercato settimanale che si teneva nella Platea Maior24, dove le comari si incontravano e parlavano liberamente.
<<Eccola che arriva, con quei riccioli che sfuggono alla cuffia>>
<<Sfuggono? O non li lega bene…l’altra sera l’ho vista in vicolo storto che era già buio e da sola>>
<<Ma chi crede di essere, ci vuol altro che libri per far nascere una creatura… mia madre mi portava con sé che appena camminavo, quando la chiamavano le partorienti!>>
<<Chissà cosa ci mette nei suoi intrugli malefici, non conosce le nostre erbe!>>
<<Se ci fosse ancora la madre Giacomo il farmacista non l’avrebbe sposata, gli uomini sono degli ingenui!>>.
Per queste chiacchiere era fatta oggetto di ogni tipo di maldicenza e le voci infamanti erano giunte perfino al podestà. Anche il biancore del suo viso e il colore dei suoi capelli, che rivelavano le sue lontane origini normanne, aggravavano le paure e i sospetti degli ignoranti.
Lei non se ne curava: badava piuttosto a far bene il proprio lavoro e a migliorarsi facendo tesoro dei consigli del padre e studiando sui suoi libri. Usciva talvolta da Porta Romana e scendeva per i sentieri della campagna fin verso Arvenino25 e saliva verso Itieli per studiare fiori e piante, raccogliere radici a seconda della stagione, in compagnia del padre ma talvolta da sola. Inizialmente aveva accompagnato con discrezione messer Giuseppe e Giacomo nelle loro visite ai pazienti, ma una volta rivelata la sua bravura era stata spesso senza i suoi abituali compagni. Alcuni tra i nobili e soprattutto i borghesi più aperti alle usanze diverse e alle novità, che avevano capito quanto fosse brava e si curavano poco delle voci del popolino, ricorrevano a lei, anche se lo facevano quasi con discrezione proprio per non essere accusati di aver a che fare con quella strana ragazza, che comunque trattavano sempre con una certa diffidenza.
I due medici patentati, l’anziano Ulderico da Miranda e il giovane Adolfo, arrivato recentemente da Bologna e dalla sua prestigiosa università, sapevano di lei ma la invidiavano per le sue capacità e, diffidenti, si tenevano a distanza, anche se fino a quel momento non si erano pronunciati apertamente, ben sapendo della fama della scuola di Salerno.
Un giorno, in occasione dell’investitura di cavaliere di messer Marco, figlio di Goliardo Filippetti, venne offerto un lauto banchetto nella loro casa. Quando arrivarono i primi ospiti, uno di loro udì delle voci alterate provenire da una stanza al piano di sopra. Lì per lì pensò a un litigio fra servi e non ci fece caso più di tanto, poi gli sembrò di riconoscere una delle voci e salì le scale.
Al piano superiore, in fondo al corridoio c’erano i cugini Goffredo e Filippo Lolli che stavano discutendo animatamente, ma smisero appena l’uomo li vide. <<Buongiorno messer Adiberto>> salutò Goffredo, un uomo vicino alla trentina, alto e robusto, castano. Il cugino Filippo, suppergiù della stessa età, simile nella corporatura, moro, accennò a sua volta un saluto col capo. <<Tutto bene, signori?>> chiese Adiberto <<Certo>> rispose tranquillo Filippo <<volete seguirci nella sala del banchetto?>>.
Alla festa erano presenti i medici Adolfo e Ulderico e alcuni fra i più ricchi cittadini narnesi, nobili e borghesi. Fra costoro anche Giacomo e Diotima.
Quando entrarono nella sala del banchetto, tutti gli sguardi incuriositi e interdetti dei presenti si appuntarono su di loro. Giacomo indossava una “roba”, un elegante completo rosso scuro, Diotima un abito di panno rosato stretto in vita da una fascia di seta, e un velo di lino azzurro con soggolo. Giacomo manteneva un atteggiamento sereno e disinvolto e chiacchierava durante il pasto, mentre sua moglie, accanto a lui, mangiava in silenzio pur restando attenta ai discorsi dei convitati.
Il medico Adolfo, che vedeva la presenza della giovane come fumo negli occhi, pensò che fosse l’occasione buona per screditarla davanti a tutti –in fondo non era che una donna, pensò-. Così, dopo aver strappato con le mani26 un pezzo di cinghiale, si rivolse a lei e le disse: <<Madonna Diotima, di voi si dice che abbiate studiato alla scuola di Salerno. Una scuola di eccellente fama. Cosa si insegna a Salerno sul modo di curare le febbri?> > Diotima trattenne il respiro poi sorrise lievemente. Sapeva benissimo che Adolfo la stava apertamente sfidando, altrimenti non le avrebbe mai rivolto la parola. Rispose esitante <<Sì messere, ho studiato a Salerno… ma di certo anche Bologna è una eccellente scuola, non credo di poter dire cose che voi già non sappiate, né vorremo annoiare i nostri convitati… >>. In realtà avrebbe voluto mettere a tacere Adolfo mostrando parte del suo bagaglio culturale, ma voleva evitare di inimicarselo ancora di più.
<<Madonna Diotima>> disse allora messer Goliardo, che aveva indetto il banchetto <<abbiate la bontà di rispondere a messer Adolfo. Sarei felice di ascoltare il parere di entrambi, non ci annoierete di sicuro, assisteremo a una quaestio27!>>. Diotima capì che doveva rispondere per forza. Se non l’avesse fatto sarebbe stato un affronto all’ospite e lei sarebbe apparsa inetta.
<<Dunque, messer Adolfo>> disse con sicurezza, raddrizzandosi sulla sedia <<come certamente saprete la malattia è segno della giustizia divina e il farmaco è uno strumento che restituisce l’integrità del corpo e dell’anima perciò, secondo gli insegnamenti degli erbari28 nei monasteri, vanno somministrate delle erbe particolari a seconda del tipo di malattia. Secondo il sistema di Galeno29 nell’uomo vi sono quattro umori dai quali derivano sistemi di armonie e disarmonie che mantengono o alterano lo stato di salute e possono essere influenzate dal moto degli astri. I medicamenti, l’alimentazione e i salassi possono ripristinare le armonie.>>.
<<Ditemi, madonna Diotima: secondo voi da cosa ci si accorge di quale male soffre il malato?>> chiese Adolfo.
<<Sicuramente più che dalle grida, dal pulsare delle vene, dal colore delle urine e dallo stato della lingua e della cornea. Presso la scuola salernitana sono tenuti in gran conto i testi degli erbari: spezie, unguenti e oli, prodotti ricavati da animali, ortaggi, cereali e legumi, così come erbe, radici, minerali e vini possono aiutare di gran lunga la guarigione. A mio giudizio i decotti di erbe medicinali funzionano molto meglio dei salassi30>>. rispose lei.
<<Madonna Diotima>> ribatté Adolfo <<io credo invece che il salasso sia la cura migliore perché toglie il sangue infetto>>
Diotima replicò: <<Forse toglierà parte del sintomo, ma non la sua causa e il sangue s’infetterebbe di nuovo, mentre i medicamenti possono guarire senza intervenire col metodo invasivo del salasso>>.
Adolfo: <<Invasivo? È il metodo più sicuro e praticato!>>
Diotima senza scomporsi rispose << Presso la scuola di Salerno si studiano tantissimi testi di medicina non solo tramandataci dai greci o dei latini, ma anche da ebrei e musulmani. Il persiano Avicenna e Giovanni Mesue il Vecchio hanno addirittura aumentato la nostra conoscenza sulle erbe rispetto al trattato del famoso medico greco Dioscoride31, aggiungendone anche altre non reperibili in Spagna>>
Adolfo replicò: <<Ma qui siamo in Italia!>>
Diotima continuò tranquillamente, come se non fosse stata interrotta, volgendo lo sguardo a Goliardo << Inoltre nel Libro Dei Rimedi di Donnolo32 sono elencati centinaia di medicamenti di origine greca e romana. Inoltre uno dei degli autori fondamentali che si studiano nella scuola di Salerno è Costantino Africano33, che ha tradotto molti libri come ad esempio quelli di Rhazes 34, che scrisse vari trattati sulla corretta alimentazione, utilizzati anche dall’imperatore Federico di Svevia>>.
Adolfo disse: << Voi vi fidate forse del sapere degli infedeli?>>
<<Messere >> rispose lei con ironia, ma senza sorridere <<non mi risulta che l’imperatore Federico, seguendo i consigli di quei testi, sia morto di indigestione o di inedia>> disse questo bevendo un sorso di vino dalla coppa. << Inoltre ho sentito dire che i testi di Avicenna vengono studiati anche nell’Università di Bologna. Li avrete consultati anche voi. Se quanto mi hanno detto è vero, non credo che siano poi reputati così malvagi o scritti da incompetenti”.
Adolfo, dopo lo scambio di battute, non aveva più argomenti: restò in silenzio, ingoiando la rabbia insieme al pezzo di cinghiale che masticava. Ulderico da Miranda, suo anziano collega, gli lanciò un’occhiataccia: aveva cercato lo scontro e si era fatto battere in quel modo da una donna, e in pubblico per giunta!
I commensali tacevano per ignoranza della questione , sorpresi e anche infastiditi dalla sicurezza di Diotima che scambiavano per presunzione, non si era mai vista a Narni una giovane donna parlare con tanta sicurezza in pubblico. Messer Goliardo si affrettò a cambiare discorso e invitò i musici a suonare.
Capitolo 6
Ormai solo pochissime persone dimostravano pubblicamente la loro fiducia a Diotima.
Un giorno il nobile Bernardo Massei, che non aveva mai fatto mistero di apprezzare le capacità di Diotima e ne aveva fatto il suo medico di fiducia per curare i suoi acciacchi di vecchiaia, all’improvviso si ammalò gravemente. Dapprima fu colpito da una sorta di paralisi improvvisa, che gli permetteva solo di muovere gli occhi e parlare con grande sforzo. In breve tempo non riuscì più a deglutire e nel giro di pochi giorni la malattia lo condusse alla tomba dopo lunghe sofferenze, senza che Diotima, che pure si recava da lui tutti i giorni, potesse aiutarlo in alcun modo. Questo fatto fece insorgere gli altri medici e cerusici da lei messi in ombra, che non persero occasione di accusare la giovane di totale incompetenza. In particolare Ulderico da Miranda, al funerale del vecchio Massei al quale era accorsa tutta la città, si accanì contro di lei mettendosi a dire pubblicamente che quella donna avrebbe dovuto essere bandita da Narni.
Il funerale si era svolto con solennità, muovendo dal palazzo signorile nel terziere di Mezule35, era sceso per la piazza del Lago attraversata la piazza Priora guidato dal vescovo che aveva celebrato il rito funebre nella chiesa di San Domenico, dove il corpo era stato inumato.
Dopo questi fatti Diotima, temendo seriamente una ritorsione, era spaventata: non poteva più ignorare le voci che, insistenti, correvano fra i rioni di Fraporta, Santa Maria e Mezule36 ai lavatoi, nelle botteghe, agli incroci delle strade, così aveva preferito ritirarsi nella bottega per occuparsi solo della preparazione dei farmaci e lasciare l’attività di cura e le visite ai malati a Giacomo. Lui, che non aveva ricevuto la stessa alta istruzione, ne accettava molto volentieri i consigli, si fidava di Diotima: molto spesso richiedeva indicazioni o le descriveva dei casi particolarmente complessi per fare insieme a lei una diagnosi. Lei lo aiutava come poteva ma era ormai difficile diagnosticare una malattia senza poter vedere, annusare e palpare il paziente, ricorrendo solo a descrizioni di sintomi senza poter verificare personalmente.
Questo avvenimento segnò profondamente Diotima, che ricadde in quello stato di estrema malinconia, una profonda tristezza di cui soffriva da adolescente e da cui solo l’affetto di Giacomo l’aveva fatta uscire. Sia il padre che il marito erano preoccupati. La giovane continuava a studiare sui libri, preparare farmaci e decotti, ma si occupava poco della casa, non sorrideva più e non voleva più uscire.
Giacomo, uscito in giardino una sera dopo il tramonto, avendo incontrato il suocero che lì riposava, gli parlò accorato: <<Perdonate, messer Giuseppe, ma la pena che provo per mia moglie mi spinge a parlare con franchezza. Capita a tutti i medici di perdere un paziente, e sappiamo benissimo quanto lei si sia prodigata per curare Bernardo Massei. Purtroppo abbiamo sottovalutato le dicerie e la superstizione popolare che in questa occasione è esplosa contro di lei e può diventare molto pericolosa. Temo che le autorità decidano di intervenire per placare il popolo, prima che esploda in proteste, denunciandola al Tribunale dell’Inquisizione!>> poi Giacomo proseguì esitante, con profonda tristezza nella voce: <<Inoltre mi preoccupa quella sorta di chiusura al mondo esterno nel quale si è confinata, come se volesse ritirarsi solo in se stessa. Talvolta non risponde neppure al mio saluto, quasi che la mia presenza le desse fastidio>> <<E’ vero, Giacomo>> rispose messer Giuseppe <<condivido la tua preoccupazione per il clima di diffidenza e persecuzione che sta montando a Narni. Potremmo andare dal Rettore del Patrimonio37 e cercare di capire cosa vuol fare. Non temere e non pensare male di Diotima e del suo affetto per te… quando è spaventata, lei si chiude come se volesse fuggire dal suo passato … Speriamo che la tua pazienza, il tuo amore e la fiducia che le porti possano ora aiutarla…dimenticare, non ricordare…>> messer Giuseppe tacque, la sua voce si spense a poco a poco come se fosse incapace di proseguire il discorso, e in quel momento Giacomo ebbe la netta sensazione che il suocero lo stesse tenendo all’oscuro di qualcosa. Sapeva bene quanto messer Giuseppe amasse sua figlia. Ogni parola e ogni suo gesto verso di lei dimostravano attenzione e affetto, come se avesse voluto proteggerla da qualcosa. Era stato anche un ottimo maestro, pensò Giacomo. Di solito alle donne non veniva neppure insegnato a leggere, a meno che non dovessero essere avviate alla carriera monacale, mentre Diotima aveva un’eccellente cultura e il padre le aveva donato anche volumi preziosi. Messer Giuseppe era stato molto felice di vedere sua figlia uscire da quel perenne stato di chiusura al mondo quando lei e Giacomo si erano conosciuti, ma ora che Diotima sembrava esservi ricaduta sembrava invecchiato di colpo, spaventato e stanco di combattere, come sul punto di arrendersi a un invisibile nemico che insidiava sua figlia, terribile solo a parlarne.
In quegli stessi giorni, il 20 Aprile, Michele era tornato alla casa paterna da Roma dopo una lunga assenza, accompagnato dallo zio monsignor Luigi. Aveva diciannove anni ormai, era alto e robusto quanto il padre, mentre nei tratti del viso ancora delicati ricordava la madre. Si era in parte rimesso dalla lesione alla spalla e portava alla cintura la spada a una mano e il pugnale, che ormai maneggiava con molta sicurezza. Michele giunse nel suo palazzo a mezzogiorno; entrato nel cortile a quell’ora affollato di carri e mercanzie, smontò da cavallo e salutò i fratelli con affetto, i genitori e i vecchi maestri con rispetto.
Quasi non riconosceva Giovanna, di quasi quattordici anni. Era bellissima, slanciata e più alta della media delle fanciulle, vestita di un abito blu decorato di delicati ricami a margherite, sul quale spiccava una perla che la ragazza portava al collo, legata a una sottile catenina d’oro, regalo del promesso sposo. I capelli raccolti in una lunga treccia arrotolata sulla nuca erano coperti da un velo di bisso bianco. <<Sono felice per le vostre nozze, Giovanna. Congratulazioni!>> disse allegramente, abbracciandola con affetto. Lei ringraziò e si sforzò di sorridere, ma si vedeva che non ci riusciva. Dai suoi occhi abbassati e dal capo chino trapelava tutta la tristezza di una ragazza che secondo l’usanza delle famiglie nobili o comunque ricche, dove i matrimoni seguivano precisi accordi di interesse economico e politico fra le famiglie, era costretta a dover lasciare la casa e le persone che fino a quel momento avevano costituito tutto il suo mondo, obbligata a sposare un uomo quasi sconosciuto. Giovanna, che pure conosceva il suo destino fin da piccola, ora che le nozze erano imminenti si figurava con apprensione la nuova vita che l’aspettava nelle ricco palazzo dei conti Mancinelli38, imponente per lei che pure era cresciuta nell’agiata casa di messer Leone, vicino all’anziana contessa madre, che le metteva un po’ di soggezione (anche se legata a lei da una lontana parentela per via materna) ma ormai sarebbe stata separata da sua madre. Si sarebbero incontrate solo alla messa della domenica o in qualche altra rara occasione. Mentre le donne del popolo che per necessità potevano uscire e attendere ai loro mestieri, le donne benestanti erano relegate nei loro appartamenti, servite e accudite, ma con pochi svaghi: a loro erano concessi il ricamo, un po’ di musica, la lettura di pochi libri edificanti nelle ore libere dalla cura della casa e della famiglia e molte ore vuote.
Michele si accorse dell’umore di Giovanna ma non poteva dirle nulla che potesse confortarla, così si girò verso il fratello Cassio e gli dette un colpetto affettuoso sulla spalla. <<Come state, Cassio?>> chiese <<Bene, grazie>> rispose quello. Aveva dodici anni e somigliava molto al fratello, sebbene molto meno robusto di quanto fosse stato Michele alla sua età. Aveva i tratti del fanciullo nel passaggio tra la fine dell’infanzia e il primissimo passo dell’adolescenza e manteneva sempre, anche quando sorrideva, un’espressione quasi intimidita, come se temesse che qualcuno da un momento all’altro lo rimproverasse per qualche motivo. Indossava una veste azzurra sopra la camicia, stretta in vita da una cintura, calzebrache39 e stivaletti neri, che sembravano far risaltare le gambe agili. Portava al collo una piccola croce d’argento che gli aveva donato la zia Francesca, sorella del padre, quando aveva compiuto sei anni. Dopo il matrimonio di Giovanna anche Cassio sarebbe andato a Roma per essere avviato alla carriera ecclesiastica. Michele sapeva bene che anche nel mondo della Chiesa bisognava avere carattere per non farsi manipolare, e si augurò che suo fratello crescesse in fretta: avrebbe dovuto presto misurarsi anche lui con una realtà diversa da quella in cui era cresciuto.
La madre si avvicinò a Michele, lo guardò sorridendo incerta, quasi non lo riconoscesse dopo tanto tempo, poi lo abbracciò a lungo con affetto. A quel punto si fecero avanti anche la sua governante, con discrezione, intimidita dal giovane che ormai era diventato più alto di lei. Il padre si avvicinò, gli mise le mani sulle spalle e poi con decisione pose fine ai saluti e invitò tutti a salire nel salone, dove erano stati già interrotti i preparativi per la cerimonia di nozze per festeggiare con una buona colazione40 il nuovo arrivato. <<Monsignor Luigi>> si interessò il precettore Trotula <<come procedono gli studi di Michele?>> <<Molto bene>> rispose lo zio e rivolgendosi al nipote messer Leone aggiunse <<suggerirei di mandarlo quanto prima a studiare in Francia per un po’, poi direi che la sua educazione potrà dirsi conclusa>> <<Ottimo! Ma che il soggiorno non sia troppo lungo!>> interloquì Leone rivolgendosi al figlio <<Appena sarete tornato dalla Francia porterete avanti con me gli affari di famiglia!>> Speriamo di no, si disse Michele. Non gli andava più di sottostare all’autorità di padri, precettori o maestri, avrebbe voluto essere lui a scegliere il suo destino. Michele non voleva che anche la sua vita fosse decisa da altri solo perché figlio di padre ricco. <<Come sta messer Vittore, Michele?>> chiese Lorenzo <<Sta bene e vi manda i suoi saluti, maestro!>> rispose il giovane pensando con simpatia al maestro d’armi di Roma. Sembrava che Lorenzo avesse letto nella mente di Michele il suo desiderio di una vita cavalleresca, la sua ansia di cercare nuove avventure lontano dalla mercatura.
Quando era entrato per la prima volta nella scuola di Vittore di Morando, sei anni prima, Michele era rimasto molto colpito dalla bravura degli allievi. Avrebbe voluto allenarsi subito, ma il braccio non era ancora guarito e per diverso tempo aveva dovuto patire il supplizio di Tantalo, obbligandosi a guardare duelli ed esercizi che non poteva fare, frustrato fra l’immobilità dovuta alla spalla ferita e il desiderio di cimentarsi con gli altri. Ma poi, seguendo i consigli di Lorenzo allenandosi dapprima con un giunco, poi con un ramoscello infine con attrezzi sempre più pesanti il suo braccio era tornato quasi come prima.
Purtroppo la spalla danneggiata non gli permetteva l’uso di armi pesanti come lo scudo o una spada a due mani, ma aveva imparato ad adattare alcune tecniche per la spada singola o spada e pugnale Da quel momento si era ripromesso di dedicare almeno due ore al giorno all’esercizio delle armi, per scaricare la tensione e tenersi in allenamento in vista del momento in cui avrebbe dovuto usare la spada. Ricordò il giorno in cui aveva vinto il suo primo combattimento nella sala di scherma: il suo unico dispiacere era stato che il suo primo maestro e il padre non avessero potuto vederlo. La voce di Lorenzo lo riscosse: <<Presto ci saranno i giochi in onore di san Giovenale, tra i quali un torneo di combattimento con la spada, che si terrà fra una settimana. Vi andrebbe di partecipare? Voglio proprio vedere cosa vi ha insegnato messer Vittore!>> <<Certo!>> rispose subito Michele, infervorandosi. Leone borbottò <<Ricordate che il matrimonio di vostra sorella sarà il 4 Maggio, il giorno dopo la festa del nostro patrono. Se vi fate male un’altra volta…>> ringhiò con aria minacciosa <<Non mi accadrà nulla>> rispose tranquillo Michele. A quel punto si udì la timida voce di Cassio <<Potrei fare la gara di tiro con l’arco?>>. Michele si stupì della richiesta, da piccolo Cassio odiava le armi. <<Va bene>> approvò il padre. <<Vostro fratello è diventato un buon arciere>> disse Lorenzo a Michele <<Ne sono lieto, io l’arco lo detestavo!>> rispose Michele ridendo.
Capitolo 7
Quella sera Diotima, ormai passati i vespri41, mentre preparava la cena in attesa del ritorno di Giacomo, sentì bussare alla porta. Andò ad aprire e riconobbe Cecco, un servo di Filippo Lolli, appartenente a una tra le più importanti famiglie narnesi. Aveva l’aria preoccupata e Diotima temette che sua figlia, la piccola Maria, che lei aveva curato con tanto amore, avesse di nuovo la febbre che l’aveva tormentata giorni prima. <<Madonna Diotima, il nobile Lolli sta molto male, ha una tosse persistente. Ha preso alcuni rimedi ma non sono serviti a nulla, mi hanno mandato a chiedere di messer Giacomo>>. Alquanto sollevata perché ormai si era molto affezionata alla famiglia di Cecco, Diotima, che pur conosceva quel paziente avendolo curato spesso al seguito del marito, non se la sentì di intervenire di persona. Così rispose: <<Mio marito è assente, è andato a curare un malato grave fuori città. Torna più tardi, lo troverai certamente, Cecco>>. Dopo circa un’ora il servo tornò, stavolta decisamente allarmato: <<Le condizioni del mio signore si sono aggravate, la tosse è fortissima e non lo lascia quasi respirare! Tutta la famiglia è in ansia e insiste per il medico>> Giacomo ancora non era tornato e Diotima, compresa la gravità del caso, preoccupata per le parole di Cecco, si fece coraggio e decise d’intervenire: indossò la sopravveste, si coprì il capo, prese una piccola cassetta con alcune fiale, volse il viso immagine della Madonna sopra canterano e s’incamminò con lui al lume di una torcia verso la residenza della famiglia Lolli. Diotima camminava a testa alta ma con gli occhi bassi, attenta a non guardare né a destra né a sinistra, procedendo come si richiedeva alle donne nelle rare occasioni in cui si mostravano in pubblico.
Al suo arrivo un’espressione di grande perplessità e sospetto si dipinse sulle facce di tutti i presenti quando videro che Diotima avrebbe sostituito il marito assente. Il servo si ritirò da una parte, senza parlare, imbarazzato. Dal piano superiore, dov’era la stanza del nobile, si sentiva un tossire forte e incessante, accompagnato da strani sibili. Madonna Matilde, la giovane moglie del malato, elegante nella sua veste di seta riccamente ricamata, superata per l’urgenza la diffidenza iniziale, disse a Diotima che quella mattina la tosse era comparsa in forma lieve, ma da allora non aveva fatto che peggiorare.
Diotima, accompagnata da Cecco e Matilde, salì le scale ed entrò nella stanza del malato. Filippo Lolli, un uomo sulla trentina, era letteralmente squassato da attacchi continui di tosse parossistica, aveva gli occhi fuori delle orbite e sembrava soffocare. Diotima lo visitò e preparò una medicina a base di elleboro e valeriana. <<Questo farmaco calmerà la tosse e favorirà il sonno, messer Filippo si addormenterà poco dopo aver bevuto la prima dose. Durante la notte tra la seconda e la terza vigilia42 il farmaco perderà effetto perciò dategliene un’altra dose e una terza non prima che sia trascorsa un’altra ora e solo al bisogno, se dovesse risvegliarsi con quella tosse. Penso però che trascorrerà la notte tranquillamente. Quando mio marito tornerà gli dirò di correre subito da voi>> disse, affidando il flacone con la medicina a Matilde. Poi la giovane moglie fece bere a fatica la medicina a messer Filippo e disse al servo: <<Cecco, io sono molto stanca, ho assistito mio marito tutto il giorno: mi affido a te, dagli tu la prossima dose, non penso di farcela a vegliare dopo compieta43>>. Il servo ubbidì e Diotima tornò a casa da sola.
La mattina seguente il malato non accennava a svegliarsi e i famigliari non vollero disturbarlo, credendolo sfinito dagli attacchi del giorno prima. Quando il sole era ormai alto sua moglie però volle comunque andare a controllare le sue condizioni. Assieme a una serva, donna Matilde entrò nella stanza, scostò con delicatezza le tende del baldacchino chiamando il marito sottovoce, gli toccò con una carezza il braccio. Filippo restò immobile, completamente rigido e freddo al contatto. Lei, presa da un tremendo sospetto, ordinò alla serva di scostare le tende e i battenti della finestra vide con orrore il volto del marito morto, con la bava alla bocca e gli occhi spalancati e rovesciati all’indietro. Matilde lanciò un urlo disperato che fece accorrere tutta la gente di casa.
Subito dopo un servo a cavallo correva da Ulderico da Miranda per annunciare la morte di Filippo Lolli e chiedere al medico di correre alla sua residenza.
<<Signori>> disse più tardi Ulderico alla famiglia Lolli, ancora sconvolta dalla morte di Filippo, riunita nella grande sala <<ho esaminato il corpo di messer Lolli e la pozione che gli è stata somministrata. A prima vista sembrava un farmaco ma mi sono accorto dall’odore e dal sapore che contiene una composizione dannosa di sostanze in dose elevata. Dichiaro dunque che Diotima da Salerno, per sua incompetenza o malvagità, ha avvelenato messer Filippo Lolli. Ricordatevi di messer Massei, anche lui è morto subito dopo essere stato curato da quella donna>>.
Tutti tacquero inorriditi finché madonna Matilde, ancora pallida, cercando di controllare le sue emozioni, si alzò e davanti a tutti, con voce ferma, chiese al cognato, il parente maschio più prossimo al defunto e poco più giovane del marito: <<Goffredo, voi siete il cugino di Filippo. Vi chiedo di rappresentarmi davanti alle autorità e andare subito a denunciare il delitto al podestà>>. Matilde ricadde sulla sedia. Aveva sedici anni, era appena rimasta vedova e senza figli, ma era l’unica donna della famiglia, in cui era entrata portando una ricca dote: oltre alle tradizionali suppellettili, tuniche e mantelli, il padre l’aveva fornita anche di una ingente somma di denaro, segno della ricchezza dei Cesi Equitani. La madre di Filippo era morta ancor giovane di parto, le sue due sorelle erano già entrata in convento, in casa restavano uno zio vedovo e l’anziano suocero malato.
Era appena suonata l’ora sesta44. Diotima stava leggendo i suoi libri quando si udì un bussare prepotente alla porta. Si alzò ma fu suo padre ad aprire. Lo vide arretrare immediatamente, sbalordito e spaventato, mentre entravano tre guardie armate di spada che lo spintonavano brutalmente. Uno di loro, che sembrava il capo, indossava sopra la camicia il corpetto imbottito e la cotta di maglia, gli altri delle giornee, delle vesti semplici che coprivano solo la cotta di maglia. Tutti loro portavano un mantello nero.
Quello che sembrava il capo richiuse la porta di colpo restando davanti ad essa per evitare che qualcuno tentasse di uscire. Le altre due guardie afferrarono la giovane per le braccia. Diotima terrorizzata cercò di divincolarsi con tutte le energie che aveva in corpo, ma non aveva la forza fisica né tanto meno la lucidità per contrastare due uomini molto più alti e robusti di lei. La guardia rimasta sulla porta disse con voce stentorea <<Diotima da Salerno, per ordine del podestà dobbiamo condurti in carcere!>> <<Con quale accusa?>> gridò lei sconvolta, continuando a divincolarsi con la forza della disperazione mentre le guardie le torcevano con forza le braccia dietro la schiena, legandole saldamente i polsi <<Te lo dirà il giudice>> rispose la guardia, indifferente. Le ruvide guardie trascinarono con violenza Diotima verso la porta, mentre ancora cercava in qualche modo di resistere. Al vedere sua figlia disperata, portata via all’improvviso senza una ragione, messer Giuseppe fece istintivamente un passo verso di lei, cercando di frapporsi fra i due che tenevano Diotima e l’uomo di guardia alla porta, ma quest’ultimo gli puntò la spada alla gola dicendo: <<Vecchio, non provare a opporti!>> Lui non poté far altro che restare a guardare le guardie allontanarsi portando via Diotima a spinte e strattoni. Lei non riusciva a resistere, lottava sempre più fiaccamente e piangeva flebilmente, sentendosi completamente impotente e sopraffatta. Alla vista della prigioniera la gente si accalcava per strada, attirata dallo spettacolo, gridando insulti e cattiverie d’ogni sorta. I pochissimi che avrebbero voluto difenderla tacevano per timore della folla esaltata. Diotima non riusciva a tenere il passo delle guardie, incespicava, i muscoli contratti delle braccia immobilizzate dietro la schiena le facevano male, sentiva le corde scorticarle la pelle e ogni strattone peggiorava il dolore. Mentre si dibatteva durante la cattura i capelli fulvi le si erano sciolti45 e le ricadevano scarmigliati sulle spalle. Era terrorizzata, ma non voleva rinunciare alla sua dignità davanti alla folla, facendosi vedere disperata e in lacrime, portata via come un animale al macello. Non riuscendo a frenare le lacrime, si sforzò con tutta se stessa di non singhiozzare. A un certo punto la stanchezza la sopraffece e non si rese quasi conto di essere arrivata al palazzo del podestà. Ormai si muoveva quasi senza percepire la realtà circostante. Le guardie la trascinarono per le scale, si fermarono davanti a una cella, la slegarono e bruscamente la spinsero dentro. Diotima, ancora inebetita, si trovò in una cella buia, senza finestre, dal soffitto molto basso, stretta e non più ampia di tre metri quadri. Sul pavimento c’era della paglia per dormire. La ragazza si accasciò senza forze e si prese la testa fra le mani come se le scoppiasse. Devo riuscire a pensare si disse cosa può essere successo? Dov’è Giacomo? Voglio uscire di qui!
Quando Giacomo, rimasto fuori tutta la notte per assistere un malato ad Amelia, finalmente tornò a casa, vide la porta sulla strada spalancata e trovò il suocero disperato che gli corse incontro gemendo: <<Giacomo, è successa una disgrazia! Hanno arrestato Diotima, l’hanno portata via per ordine del podestà, non so neanche per quale motivo!>>. A Giacomo venne un tuffo al cuore. Si fece raccontare tutto, poi uscì di corsa, montò in sella e corse dal podestà.
Al suo ritorno dal breve colloquio, Giacomo trovò Michele che era venuto a trovarlo e cercava di consolare il povero messer Giuseppe, distrutto dal dolore e dall’ansia. Ormai la notizia dell’arresto di Diotima aveva fatto il giro della città. Quando Giacomo entrò in casa Michele gli si fece incontro, gli mise le mani sulle spalle e gli disse <<Amico mio, cos’ha detto il podestà? C’è qualcosa –qualunque cosa- che io possa fare per te e Diotima?>> <<Il podestà>> disse Giacomo sull’orlo del pianto, pallido e cupo nel volto <<ha detto che bisogna aspettare l’arrivo del giudice tra due giorni. Diotima è stata accusata di aver avvelenato Filippo Lolli. Il processo si terrà in carcere a porte chiuse e dovrà chiamare lei stessa i testimoni a suo favore o qualcuno che sia disposto a giurare sui Vangeli sulla sua integrità morale. Ma anche cosi… rischia la pena per omicidio… la morte!>>.
Capitolo 8
Diotima, in cella, al buio, aveva perso la cognizione del tempo e si sentiva intrappolata in una sorta di non-luogo, popolato da paure e ricordi terribili che aveva sempre cercato di nascondere, sepolti in un recesso della mente e che ora riaffioravano con tutta la loro forza. Si rivide undicenne, nel villaggio di provincia dov’era cresciuta, durante l’attacco di una banda di mercenari sbandati in cerca di bottino. Sentì il terrore di quei momenti attanagliarla, mentre riviveva la fuga verso casa cercando scampo, vedendo gente inerme che tentava di difendere case e raccolti venire trucidata, nel frastuono di urla disperate e cavalli al galoppo. Mentre i mercenari si avvicinavano alla sua casa la piccola Diotima aveva cercato disperatamente un nascondiglio. Rivide sua madre che tentava di metterla al riparo nella botola della loro cantina. Diotima era saltata dentro e aveva alzato lo sguardo verso l’alto, aspettando che la madre scendesse, ma la donna aveva girato di scatto la testa sentendo la porta sul punto di essere sfondata, aveva chiuso subito la botola, mentre si sentivano latrare parole oscure e minacciose. Sapeva che per lei non c’era scampo, ma voleva salvare la figlia. Diotima era rimasta al buio, tappandosi le orecchie, cercando di non sentire le urla di sua madre che erano durate a lungo. Infine, tutto tacque. Diotima era rimasta ancora per un tempo che le era parso interminabile nella botola, in quel silenzio irreale, infine aveva perso coscienza ed era precipitata in una specie di sonno pesante e agitato, finché non aveva sentito la botola aprirsi e aveva visto il volto di suo padre che le porgeva la mano per farla uscire. Accanto a lui c’era il corpo martoriato della madre. Pur sapendo che lei non avrebbe potuto salvarla e che sua madre stessa aveva cercato di proteggerla fino alla fine, Diotima aveva odiato sé stessa e la propria impotenza. Per diversi mesi non aveva più parlato, tanto che suo padre aveva temuto che rimanesse per sempre muta. Pian piano col tempo si era riaperta al mondo e avendo scoperto lo studio della medicina con l’aiuto del padre si era rifugiata in esso, fino a giungere a frequentare la scuola di Salerno. Ma ora si trovava nella stessa orribile situazione di impotenza patita tanto tempo prima, e stavolta nessuno avrebbe potuto proteggerla. I ricordi tornavano vivissimi dentro di lei che pure continuava a cercare di pensare con lucidità, ma più si opponeva ai ricordi più aumentava il terrore. A un certo punto Diotima sentì un senso di totale panico e confusione crescerle dentro. I suoi occhi non vedevano nemmeno l’oscurità della cella, ma in lei vivevano solo quegli orribili ricordi, come se il tempo non fosse mai passato e quegli atroci momenti, i suoni e gli odori fossero ancora presenti. Diotima non piangeva né gridava, ma si sentiva malissimo, soffocata in un profondo e gelido tunnel senza fine. Se avesse potuto avrebbe posto fine alla sua vita pur di cessare di vivere in quell’incubo continuo.
Due guardie entrarono in cella e la afferrarono bruscamente rialzandola, le incatenarono i polsi e la condussero per un lungo corridoio. Diotima non aveva la forza di parlare, ma il solo fatto di muovere le gambe e vedere la luce delle torce la riportò alla realtà. Non sapeva perché fosse stata arrestata, ma capì di essere condotta dal giudice per l’interrogatorio. Finalmente avrebbe saputo il motivo del suo arresto. Devo difendermi! È in gioco la vita e non voglio morire… voglio vivere! si disse.
Venne condotta in una sala dov’erano il giudice e il notaio. Il giudice era un bell’uomo ancora giovane con una barba sottile e appena brizzolata, vestito di nero e con il capo coperto, il notaio un anziano chierico dagli occhi pallidi, che avrebbe trascritto l’interrogatorio. Erano seduti a un lungo tavolo. Quando la ragazza fu portata al loro cospetto il giudice le chiese con voce secca: <<Sai per quale motivo sei stata portata qui?>> <<No>> rispose lei <<Sei accusata di aver avvelenato Filippo Lolli>> disse il giudice. Diotima, pur sbalordita perché non aveva ancora potuto sapere della morte del nobile, trovò la forza di gridare: <<E’ falso!>> . Poi, cercando di rimanere calma, proseguì raccontando dell’assenza di suo marito, delle pressioni della famiglia Lolli, infine della decisione di recarsi da sola presso il malato. Il giudice allora disse <<Tu dici di aver preparato una medicina con delle fiale di elleboro e di valeriana prese dalla dispensa dei farmaci di tuo marito, ma il medico Ulderico da Miranda l’ha esaminata e afferma che si tratti di un miscuglio di sostanze dannose!>> <<Ma signore>> gemette Diotima sull’orlo del pianto, a testa bassa, con un filo di voce: <<che vantaggio avrei avuto nell’uccidere messer Lolli?>> Il giudice la fissò severamente: << Non sta a me entrare nella testa di una donna giovane e straniera che se ne va da sola in giro di notte, che dice di saper leggere, che vuol far credere di essere medico… Qualcuno potrebbe averti pagato, forse avevi dei motivi nascosti di rancore verso di lui… in verità non sei che una millantatrice!>>. Quest’ultima parola fece passare Diotima da un atteggiamento supplichevole a uno altero: alzò la testa di scatto, guardò il giudice dritto negli occhi e disse con voce ferma: <<La scuola di Salerno non forma millantatori! Vi ripeto che queste accuse sono false>> <<Taci!>> tagliò corto il giudice, che cominciava ad osservare con maggiore attenzione la giovane donna <<Puoi provare che le sostanze somministrate a messer Lolli fossero farmaci e non veleno? Sappi che per il tuo delitto è prevista la pena di morte>>. Diotima tacque, non sapeva più come difendersi: non c’erano testimoni, se non il solo Cecco che era un servo, non aveva cognizioni farmacologiche e non poteva quindi testimoniare per lei, e madonna Matilde che era la sua accusatrice. Inoltre la giovane non poteva sapere cos’era successo dopo avere lasciato il palazzo e quali ragioni avessero spinto i suoi accusatori a procurare la morte del Lolli, coinvolgendola colpevolmente, trascinandola in questa drammatica situazione. Di fronte al pallore di Diotima il giudice, sempre più colpito dalla fermezza della giovane donna, molto composta e seria pure negli abiti malmessi dopo i giorni passati in cella, disse: << Puoi nominare qualcuno disposto a giurare sui Vangeli, alla presenza del vescovo, che sei innocente?>> Anche il notaio alzò gli occhi su di lei in attesa della risposta. Dopo una brevissima esitazione, Diotima alzò il capo <<Sì>> disse. Nascondendo l’incertezza, guardò il giudice negli occhi e fece i nomi di suo padre, di Giacomo, di Michele, di messer Leone e di altri che aveva curato spesso, sperando, pur senza molta convinzione, che le persone conosciute e rispettabili di cui si fidava non temessero di farsi avanti per salvarla. Quando le guardie l’ebbero riportata in cella, gli orribili ricordi ripresero a tormentarla.
Capitolo 9
Quella domenica, nella cattedrale, tutta la città fu chiamata a riunirsi dalle campane che suonarono a lungo. Diotima, con la corda al collo e sempre sorvegliata da un drappello di guardie, aspettava in un angolo, accanto all’altare, ma lontana dal recinto sacro, che fosse decisa la sua sorte. Dopo che tutti si furono comunicati, il vescovo chiamò a giurare sui Vangeli le persone che Diotima aveva nominato. Per primo si alzò il padre, pose la mano sul libro dei Vangeli e, parlando con sicurezza, disse: <<Giuro davanti a Dio e agli uomini e sulla salvezza della mia anima che Diotima di Giuseppe da Salerno è innocente>>. Dopo di lui Giacomo, messer Leone, Michele e messer Lorenzo ripeterono il giuramento, ma dopo di loro non s’alzò nessun altro. Le altre persone nominate restarono al loro con gli occhi bassi: non avevano il coraggio di prestare un giuramento che avrebbe salvato la vita dell’imputata ma li avrebbe esposti all’ostilità della folla appena usciti dalla chiesa.
Non era necessario un numero elevatissimo di giuramenti per salvare la vita della giovane. Madonna Matilde, che sedeva accanto a messer Goffredo, fremeva di rabbia: non sopportava l’idea che la straniera Diotima se la cavasse così, e sibilò con livore all’orecchio di Goffredo: <<Permetterete forse che l’assassina di vostro fratello se ne vada libera sulla parola del padre, del marito e di sole altre tre persone? Se volete difendere l’onore della vostra famiglia vendicate Filippo! Solo così mio padre acconsentirà alle mie seconde nozze nel vostro casato>> e aggiunse con malizia <<O preferite restituire la mia dote46?>> Proprio nel momento in cui il vescovo stava per dichiarare Diotima innocente messer Goffredo si alzò e disse rivolgendosi a lui: <<Eccellenza, perdonate l’ardire, ma a mio avviso queste testimonianze non sono sufficienti! Hanno prestato giuramento soltanto tre persone che non siano legate da vincoli familiari all’imputata. Per l’onore del nostro casato ritengo che la parola di tre persone non sia sufficiente a scagionarla. Chiedo la prova di Dio47! Se qualcuno si fa avanti come campione per difendere questa donna, lo sfido a duello. Se vincerò vuol dire che lei è colpevole e sarà giustiziata>>.
A quelle parole Diotima, che pure si era rassicurata vedendo che almeno le persone che amava di più avevano giurato, e che tanto fosse sufficiente a salvarla, ebbe un capogiro e si sentì svenire. Michele d’impeto si alzò di scatto davanti a tutti. Non poteva restare indifferente davanti a quella sofferenza. Diotima e suo padre gli avevano salvato la vita e la ragazza aveva continuato a fare del bene a diverse persone salvando loro e i loro cari da gravi malattie, ma quei vigliacchi non avevano voluto aiutarla, e adesso Goffredo otteneva di farla giustiziare se nessuno avesse raccolto la sua sfida. <<Mi propongo come campione!>> esclamò. Il suo maestro d’armi, che conosceva la bravura con la spada di Goffredo, fece per trattenerlo ma lasciò perdere: ormai era fatta, la sfida era stata raccolta e Michele non era più un bambino. Quando ebbe pronunciato quella frase Michele ricadde sulla panca sentendo le gambe tremargli: non si pentiva certo di aver preso le difese di Diotima (Giacomo non avrebbe potuto combattere, non sapeva usare la spada) ma capiva che, per la prima volta dopo molto tempo avrebbe dovuto battersi sul serio per difendere la vita di qualcuno che gli era caro. Non era più un gioco da ragazzi.
<<Bene, la sfida è stata raccolta, tra due giorni avverrà il duello secondo la volontà di Dio. Il giudice decida se si tratterà di un duello al primo o all’ultimo sangue>> sentenziò il vescovo. <<Al primo sangue, eccellenza>> disse il giudice che sedeva in prima fila, alzandosi. <<Sarà dichiarato vincitore il contendente che infliggerà la prima ferita leggera all’avversario. Se l’avversario venisse ucciso volontariamente colpendo un punto vitale apposta, l’uccisore stesso verrà giustiziato per aver infranto le regole. Se invece l’avversario subirà una ferita mortale involontaria, questa non verrà imputata al vincitore. l duellanti non dovranno indossare nessuna protezione sopra la camicia>>.
Mentre tutti uscivano il brusio dei commenti arrivava fino alla piazza. Diotima venne ricondotta in carcere. Michele, nervosissimo, si avvicinò allo zio monsignor Luigi e chiese di potersi confessare. Lo zio lo guardò con attenzione e si diresse lentamente al confessionale.
Michele s’inginocchiò, si segnò, recito d’un fiato la formula <<Padre, chiedo perdono per i miei peccati>> poi tacque esitando; il sacerdote, che intuiva il tumulto di pensieri che agitavano il giovane nipote attese poi con calma disse: <<Vi ascolto, Michele>> <<Sono confuso, ho una tremenda paura di non farcela! Non ho mai usato la spada se non nei tornei e per giunta ho una spalla rovinata! Ma ho dato la mia parola e non posso tornare indietro, ne va della vita di Diotima e del mio onore48!>>. Lo zio, che per sei anni era stato la persona più vicina a Michele durante il soggiorno a Roma, era un uomo intelligente e comprensivo. <<Dio vi aiuterà, Michele, affidatevi alla sua giustizia. Non abbiate paura di battervi se credete nell’innocenza di quella figliola e volete salvare una vita>> <<Ma messer Goffredo è più esperto di me, l’anno scorso ha vinto la Corsa all’anello e tutti i tornei! Io qualche torneo a Roma l’ho vinto, ma temo che mi schiaccerà come uno scarafaggio, è esperto praticamente in ogni arma,io posso usare la spada a una mano ma la deformità alla spalla mi impedisce di usare bene lo scudo! >>.
Michele era molto combattuto tra il desiderio di salvare la vita di Diotima, dando finalmente prova a tutti delle sue capacità combattendo, e il timore di aver raccolto una sfida superiore alle sue forze. L’idea di poter essere ferito subito, senza potersi minimamente opporre, senza poter aiutare Diotima, lo terrorizzava. <<È normale che abbiate paura, Michele, ma se già da ora siete convinto di perdere finirete col farvi sconfiggere subito o, peggio, di scappare senza combattere! State sereno, comunque vada avete dato prova di maturità davanti al uomini davanti a Dio. Ora andate dal vostro maestro d’armi e allenatevi con lui. Stanotte e prima del duello pregate San Giorgio, San Michele49 e San Giovenale che vi siano propizi e intercedano per voi. Anch’io pregherò per la vostra vittoria. Ego te absolvo a peccatis tuis…>> lo zio pronunciò la formula dell’assoluzione e Michele uscì un po’ più sollevato dal confessionale.
Il servo Cecco, tra i pochi che avevano a cuore Diotima, tornando a casa quella sera, sentì nel vicolo alcune persone che commentavano gli ultimi avvenimenti. <<Arriverà l’esecuzione!>> esclamò uno di loro sghignazzando con un verso brutale. Cecco scosse la testa con tristezza e rientrò in casa. Trovò sua moglie al telaio mentre lavorava la lana. Accanto a lei la loro piccola Maria dormiva nella culla. Cecco salutò la moglie, lanciò una breve occhiata affettuosa alla piccola e andò a sedersi pensieroso. C’era un pensiero fisso che gli tornava in mente ma non riusciva a mettere a fuoco, qualcosa che proprio non capiva ma di cui avvertiva l’importanza. A un tratto fece un salto sulla sedia.
Qualcuno bussò alla porta e Giacomo andò ad aprire. Sulla soglia apparve Cecco. <<Posso entrare?>> chiese il servo in tono umile. Giacomo lo lasciò passare, mentre messer Giuseppe lo guardava con aria sorpresa. Cecco disse di essersi allontanato dal palazzo con la scusa di una commissione. Voleva assolutamente raccontargli un dettaglio che gli era parso importante: <<Quando ho somministrato a messer Filippo Lolli la seconda dose il colore della medicina mi è sembrato diverso, era diventata un po’ più scura, ma alla luce della candela che si stava consumando non vi ho dato importanza. Ora, ripensandoci… mi sembra importante…>> disse. Giacomo lo ascoltò con attenzione, gli chiese se era sicuro di quanto diceva, poi si alzò dalla sedia gridando: <<La medicina è stata adulterata! Il colore non poteva essere cambiato in così poco tempo!>> Cecco proseguì <<La notte del delitto, mentre stavo per dare la medicina al defunto Lolli, sono stato richiamato al piano di sotto da una voce, sono sceso ma non c’era nessuno, ho guardato in giro e poi ho pensato che forse nel dormiveglia avevo sognato. Risalendo ho visto una sagoma uscire dalla stanza. Sulle prime non ci avevo fatto caso, ma c’era un particolare che non mi tornava: sebbene non l’avessi visto in faccia, l’uomo uscito dalla stanza aveva l’anello di messer Goffredo!>> <<Ma allora la faccenda è complicata, sono questioni di famiglia! Cercano un colpevole che faccia da capro espiatorio>> disse Giacomo << Hanno approfittato della fiducia che messer Filippo riponeva in Diotima. Evidentemente Goffredo ha tolto di mezzo il cugino alterando o sostituendo la pozione>> Cecco disse: <<Avevo troppa paura di parlare davanti a tutti, ma so benissimo che vostra moglie non è un’assassina, le devo la vita della mia bambina>>. Giacomo camminava avanti e indietro per la stanza imprecando a bassa voce: la parola di Cecco da sola non sarebbe bastata a provare nulla, occorrevano prove tangibili o confessioni. Che fare?
Capitolo 10
Michele non aveva potuto allenarsi con Lorenzo in preparazione al duello, perché ormai il suo maestro aveva una certa età e aveva perso l’agilità di un tempo, ma sotto la sua direzione aveva combattuto con Guglielmo, il servo più fidato dei Ridolfini, istruito dallo stesso Lorenzo e preparato con lui una sorta di strategia da usare nel duello. Il ragazzo continuava ad avere paura, non era affatto sicuro di superare quella prova, ma almeno se avesse fallito avrebbe potuto dire di essersi impegnato al massimo delle sue possibilità.
Aveva passato tutto il tempo con Guglielmo, armati entrambi di una spada di legno immersa in una tintura rossa, in modo tale da simulare uno scontro al primo sangue.
Guglielmo era velocissimo e trovava ogni volta pertugi nella guardia di Michele, lasciandolo sempre più frastornato e incerto. Dopo diversi assalti che gli avevano lasciato vari segni rossi sulla camicia, Michele tirò fuori l’orgoglio e la grinta: appena vide la spada di Guglielmo arrivargli addosso parò con il brocchiero50 e attaccò di lato colpendolo sul fianco. <<Bene! Dovete colpire senza pensare, Michele>> disse Lorenzo. Michele continuò così ad allenarsi fino alla mattina del duello, cercando di concentrarsi su come ingannare l’avversario e fare in modo che colpisse scoprendosi e lasciandogli la possibilità di avere il primo sangue.
La mattina del duello, quando si alzò, il primo pensiero di Michele fu per Diotima e la sua famiglia: era per loro che aveva scelto di buttarsi in quest’impresa, sia per l’amicizia che li legava sia per un filo di incoscienza che hanno tutti gli adolescenti. Si vestì e scese al piano di sotto. Vide sua madre dargli il buongiorno con aria ansiosa, ma senza far parola del duello imminente. Sua sorella Giovanna invece lo guardava con aria quasi seccata, come se lui le rubasse la scena proprio nel momento del suo prossimo matrimonio. Suo padre ovviamente non diceva nulla ma i suoi modi bruschi e i gesti nervosi indicavano la paura che provava per il figlio, che avrebbe comunque potuto restare ferito. Michele, messer Leone, Lorenzo e lo zio monsignor Luigi si avviarono verso la platea Maior, attraversando una folla che fece loro ala.
Nel momento fatidico, quando i contendenti vennero convocati sulla piazza assiepata di gente pronta ad assistere al duello, Michele sentì il cuore battergli sempre più forte per l’emozione. Cercava di non pensare al duello e si concentrò sul brusio dei commenti e sul rumore come se, lasciandosi andare momentaneamente all’ascolto di quella cacofonia confusa, riuscisse a calmarsi.
I contendenti presero le armi e si portarono davanti al vescovo e al giudice. Michele, per restare concentrato, non voleva guardare Diotima. La ragazza era sempre prigioniera in mezzo alle guardie e lui immaginava bene che lo stesse osservando angosciata. Sarebbe bastato ricevere solo un graffio dalla spada di Goffredo e sarebbe stata giustiziata immediatamente.
Michele non poteva usare abbastanza bene lo scudo a causa della spalla rovinata, ma portava la spada singola a una mano e il brocchiero, come Goffredo. Entrambi i contendenti, come di regola, indossavano solo la camicia, calzabrache di cuoio e guanti.
Prima di scendere in campo Michele, come gli aveva consigliato lo zio monsignor Luigi, si era raccolto un momento in preghiera. Dando le spalle a tutti i presenti pregò con un ginocchio a terra, chiudendo gli occhi come a volersi isolare almeno per un momento dalla realtà che lo circondava e dalla responsabilità che aveva scelto di assumersi.
I duellanti si fronteggiarono, guardandosi negli occhi. Michele non tremava ma si sentiva sudare freddo, mentre Goffredo era tranquillo e lo guardava con la ferocia di un gatto che stia per mangiarsi un topo.
Fu dato il segnale d’inizio.
Goffredo si precipitò addosso a Michele brandendo la spada e cercando di colpire con una serie di attacchi in obliquo verso la spalla, sicuro di chiudere immediatamente il duello. Michele parò i colpi sia con la spada che con lo scudo, e grazie al proprio impeto riuscì a deviare la spada di Goffredo lateralmente, avanzando svelto di tre passi e portandosi lontano dalla parte più acuminata dell’arma. Prima che Goffredo si rimettesse in posizione di guardia Michele si girò verso di lui in obliquo, come per dargli involontariamente la possibilità di rimettere l’equilibrio, ma in realtà cercando di portarsi ancor più vicino a lui. Qualsiasi mossa avesse fatto Goffredo da quella posizione Michele avrebbe potuto parare senza problemi, ma trovandosi molto vicino all’avversario non volle attaccare per primo, temendo di scoprirsi.
Goffredo invece partì ancora all’assalto mirando al fianco di Michele, abbassandosi leggermente per colpire la parte scoperta dell’avversario, ma Michele appena lo vide abbassarsi per colpirlo con la spada, abbassò lo scudo proteggendosi e piroettò dietro Goffredo, riuscendo a portarsi proprio alle spalle dell’avversario
Il giovane approfittò della posizione e gli inflisse un leggerissimo, quanto umiliante, colpo con la spada che gli lasciò un superficiale taglio sulla nuca da cui sgorgò un rivolo di sangue.
Restò in piedi senza fiato accanto all’avversario ancora incredulo. Goffredo che era rimasto nella posizione tesa in avanti, immobile come una statua, bestemmiava a voce bassissima. Un attimo di silenzio e poi la folla esplose sorpresa dall’inattesa soluzione dello scontro e insieme delusa per il risultato del giudizio di Dio. Il giudice dichiarò: <<Michele Ridolfini ha vinto il duello. Il Signore si è espresso: Diotima da Salerno è innocente. Ordino dunque che sia lasciata libera>>.
Dalla folla si levò un fortissimo brusio mentre tutti i presenti commentavano il duello. Michele rinfoderò la spada e si allontanò sulle gambe rigide per l’emozione, andando verso il padre e il maestro che lo stavano aspettando ai bordi del campo del duello. Lorenzo lo abbracciò e gli disse:<<Sapevo che ce l’avreste fatta, giovane demonio!>>.
Michele ricambio l’abbraccio e guardò suo padre. Leone Ridolfini non sapeva proprio che dire: sorpreso da una tenerezza sconosciuta non riusciva minimamente a esprimersi. Alla fine riuscì a borbottare a mezza voce una frase che Michele non si era mai sentito dire: <<Sono fiero di voi>>.
Anche lo zio monsignor Luigi si congratulò con il nipote (non glielo aveva detto, ma aveva avuto paura che il suo avversario con quella spada potesse fargli male sul serio).
Messer Giuseppe e Giacomo erano corsi verso Diotima. Le guardie avevano slegato la ragazza, che ora camminava a passi lenti verso di loro. Suo padre non seppe trattenere un pianto silenzioso mentre l’abbracciava, aveva avuto tanta di quella paura per lei che per giorni non aveva dormito né mangiato quasi nulla. Giacomo stesso abbracciò la moglie sussurrandole nell’orecchio parole di consolazione e di affetto. Diotima ricambiò l’abbraccio debolmente perché era molto debilitata, ma sorrideva. Erano stati giorni orribili mentre era abbandonata in quella maledetta cella, costantemente tormentata da fantasmi del passato e terrorizzata dalla morte imminente: ora che era finalmente libera si sentiva fisicamente ancora più debole e molto confusa, ma consapevole che l’incubo fosse finito.
Capitolo 11
Una settimana dopo questi fatti, Giovanna si sposò. Il giorno del suo matrimonio fu memorabile. La cerimonia fu officiata dallo zio monsignor Luigi nel Duomo di Narni, tutti i cittadini vennero ad assistere. Indossava un elegante abito rosso di seta, e aveva un velo bianco di lino sopra il soggolo. Lo sposo indossava una giubba rossa scura e brache ampie nere. Seduti in prima fila, Michele e Cassio, vedendo Giovanna andare verso l’altare con passo incerto (palesemente intimidita per essere sotto gli sguardi di tutti e contemporaneamente felice per il suo grande giorno) non poterono fare a meno di ridacchiare a bassa voce, fulminati subito da un’occhiata della madre. Al momento del bacio la chiesa venne quasi giù per l’acclamazione. Dopodiché seguì il banchetto nuziale.
Quella sera Cecco, ben felice che l’innocenza di Diotima fosse stata provata, era a casa. Dopo aver ottemperato ai suoi obblighi di servo, quando era rientrato, dopo cena si era concesso un momento di calma. Aveva coccolato la sua bimba ancora in fasce, raccontato una storia ai figli più grandicelli e aveva dato loro la sua benedizione prima che andassero a letto. Poi, inventata una scusa per tranquillizzare la moglie, era uscito.
Giacomo, Diotima e suo padre erano a casa. Soli e tranquilli, sedevano semplicemente intorno alla tavola, senza parlare, come se in quel momento il fatto di essere di nuovo insieme li aiutasse a cancellare gli ultimi traumatici eventi. Dal vicolo attraverso la finestra illuminata si intravedevano le sagome delle loro teste. A quel punto si udì bussare alla porta. Era Cecco. Salutò i presenti e rivolse un timido sorriso a Diotima, come a dirle che era felice di rivederla.
<<Ditemi, messer Giacomo>> disse Cecco <<avete detto che avrei potuto aiutarvi. Sarò ben lieto di farlo.>>
<<Cecco>> disse Giacomo <<devi tener d’occhio i movimenti di Goffredo in casa, chi entra e chi esce di lì>>. Il servo acconsentì e uscì di corsa. La mattina dopo, mentre si trovava nella farmacia, venne Ermentrude, una serva di madonna Matilde. Era una donna piuttosto alta, magra, dal fisico asciutto e pallida. Chiese a Giacomo un balsamo contro l’orticaria. Forse alla “cara” Matilde è venuta l’orticaria perché non è riuscita a fare incolpare Diotima, pensò Giacomo ridacchiando dentro di sé. Mentre consegnava alla donna il balsamo domandò con una perfetta faccia di bronzo: <<Dimmi Ermentrude, sai per caso come sta messer Goffredo? Immagino sia ancora scosso per la morte di suo cugino>> <<Scosso? È fuori di sé, ma non certo per il dolore, messer Giacomo. Date retta, quella è una autentica famiglia di vipere! Goffredo e Filippo non hanno fatto che litigare per almeno un anno a causa della condotta di Goffredo che per debiti si stava divorando il patrimonio. Inoltre i due cugini non si sono mai potuti sopportare neanche da ragazzini, avevano caratteri troppo diversi. Filippo era piuttosto prevaricatore, ma anche Goffredo finiva sempre per fargliela pagare. Il padre di Goffredo non aveva occhi che per Filippo, perché riteneva il figlio un’imbelle e Goffredo ne ha sempre sofferto molto. Ora che si trova senza soldi perché il padre di madonna Matilde non ha acconsentito alle nozze di sua figlia con lui, dopo che ha perso il duello, è proprio furioso>> disse Ermentrude. Dopo aver spettegolato su un altro paio di famiglie narnesi, la donna pagò e uscì.
Intanto Michele era andato a trovare i suoi vecchi amici d’infanzia Stefano, Tommaso, Paolo e Luca. Luca, il più piccolo, da bambinetto che era si era fatto un bel ragazzo e Tommaso, che anni prima era mingherlino, ora era un giovanotto grande e grosso. Salutarono Michele con rispetto e gli dettero del “voi”, ma lui dispensò pacche sulle spalle a tutti e quattro: gli voleva bene come allora, da piccoli. I giovani andarono a festeggiare in una taverna la loro rimpatriata con un bel bicchiere di rosso, rivangando vecchi ricordi e raccontandosi vari aneddoti sui fatti accaduti negli ultimi anni. Soprattutto i quattro fratelli si complimentarono con Michele per la sua abilità con la spada. Michele era contento di avere ancora la loro ammirazione. A un certo punto chiese loro, a bassa voce: <<Ragazzi, devo chiedervi una cosa: voglio che, con molta discrezione, teniate d’occhio messer Goffredo Lolli. Una moneta d’argento per qualsiasi informazione utile. È molto importante>>. I quattro si scambiarono uno sguardo serio fra loro, poi Stefano parlò: <<Contate su di noi>> <<Grazie ragazzi, sapevo di potermi fidare>> rispose Michele.
Nonostante però gli amici di Michele tenessero veramente d’occhio Goffredo e anche Cecco restasse con gli occhi e le orecchie bene aperti dentro casa, sembrava che non accadesse nulla di strano né vi fossero indizi di nessuno genere: Goffredo si allontanava da casa per andare in chiesa o in qualche taverna a bere, ma nulla più. Cecco riferì però a Giacomo che spesso il medico Ulderico da Miranda frequentava la casa dei Lolli e vi si intratteneva. Tutti gli incontri con Ulderico avvenivano a porte chiuse e ovviamente Cecco non si poteva mettere a origliare, il rischio di essere scoperto era troppo alto. Il pedinamento di Goffredo e lo spionaggio all’interno di casa Lolli da parte di Cecco durarono per almeno due settimane, ma non si venne a capo di nulla. <<Quel dannato Goffredo resterà impunito!>> esclamò Giacomo, vedendo che tutti gli sforzi per trovare delle prove non portavano da nessuna parte. <<Aspetta>> disse calmo Michele. <<Se Ulderico da Miranda continua a frequentare Goffredo Lolli, forse è suo complice e ha intenzione di ricattarlo. C’è un modo per scoprirlo…>>
Qualche tempo dopo, un tardo pomeriggio, mentre Ulderico usciva dalla bottega, incontrò Michele che lo salutò. I due si scambiarono i convenevoli. <<Come state, messer Michele?>> <<Sapete, messer Ulderico, ho una spalla rovinata che talvolta mi fa male, me la sono fratturata da ragazzino e ultimamente è un po’ peggiorata. Forse l’ho sforzata troppo. Voi come state?>> <<Abbastanza bene, grazie. Cercate di tenere a riposo la spalla, mi raccomando>> disse Ulderico, e proseguì per la sua strada.
Qualche giorno dopo Ulderico e Michele si incrociarono di nuovo e il giovane disse al medico “La spalla è peggiorata, mi fa molto male e i rimedi che solitamente prendo non mi hanno giovato. Potreste consigliarmi qualche farmaco?>> E aggiunse: <<Non mi fido più di madonna Diotima, né di suo padre! Sono convinto che siano due perfetti incompetenti! È normale che una spalla fratturata faccia male quando è freddo, ma siamo a maggio inoltrato e i dolori non passano! Potreste consigliarmi qualcuno dei vostri preparati?>>
<<Certo!>> rispose Ulderico, ben lieto di far fare pessima figura a Diotima e suo padre.
Due giorni dopo Michele si presentò tutto arzillo nella bottega di messer Ulderico <<Messere, i vostri rimedi sono stati portentosi! La mia spalla e perfettamente guarita! Erano giorni che non provavo un tale sollievo! Per ringraziarvi io e mio padre vorremmo invitarvi a un banchetto domani>>. Ulderico, mai sazio di lodi, gonfiò il petto simile a un pavone che ruota la coda, e accettò.
Subito dietro la bottega di Ulderico, Leone aspettava il figlio e gli domandò:<<Ulderico ha accettato?>> <<Sì, padre>> rispose Michele.
Il giorno dopo in casa Ridolfini ci fu un grande banchetto. Michele e messer Leone accolsero il medico con tutti gli onori e gli furono servite pietanze quasi regali. Il padre di Michele, mentre mangiavano, deplorava quei falsi medici di Diotima, Giacomo e Giuseppe, e aggiunse:<<Michele è stato proprio uno sciocco a difendere quell’arpia di Diotima, gliel’avevo detto di non farlo! Guardate come l’hanno ripagato, se non se non era per i vostri medicamenti chissà come si sarebbe ridotto quella spalla malandata!>> <<È vero, padre, ma mi sono sentito in dovere di farlo per Giacomo, che è un mio carissimo amico d’infanzia…>> disse Michele con espressione contrita. <<Ma quale amico! Gli hai salvato la moglie, ma poi lui ti ha rifilato medicinali fasulli. È un incapace!>> esclamò il padre; e aggiunse <<Un farmaco mal riuscito, come quello che ti ha rifilato il caro Giacomo, invece di farti bene si è trasformato in veleno>>. <<Beh>> intervenne Ulderico <<è facile che un farmaco si trasformi in veleno, basta aumentare o diminuire una delle componenti, quindi bisogna stare molto attenti quando si fabbrica un farmaco>>.
<<So che ci sono veleni>> disse Leone con aria meditabonda <<che possono uccidere molto rapidamente e altri molto più lentamente, anche a distanza di giorni>> <<Sì>> rispose Ulderico <<ad esempio con aconito, elleboro e cicuta si potrebbe indurre un sonno che porta direttamente alla morte>>
<<E il colpevole non verrebbe mai trovato>> continuò Leone <<a meno che non venga colto sul fatto>> <<Infatti, messer Leone, io penso che il veleno sia l’arma perfetta per compiere un delitto: nessuna traccia che possa condurre all’assassino>>
<<Già>> disse Leone con aria pensierosa, <<ma potrebbe essere incolpato chi ha servito alla vittima il veleno>> <<Giusto>> rispose Ulderico <<ma non è detto che un paggio che abbia servito una bevanda avvelenata abbia agito di sua volontà o sapendo che la bevanda fosse avvelenata. Quindi, come vedete, il veleno è un’arma terribile>>.
Leone ridacchiò: <<Sapete che vi dico, messere? Ho diversi concorrenti che mi piacerebbe far sparire. Quei maledetti vendono prodotti di qualità più bassa della mia, ma siccome il loro prezzo è più basso, vendono più di me e guadagnano di più, anche se la qualità della mia merce è migliore. Certe volte vorrei proprio che gli venisse un accidente mentre si ingozzano, magari inghiottendo involontariamente una bella dose di cicuta…>> Leone e Ulderico presero a ridacchiare con aria complice, poi Leone aggiunse con aria preoccupata: <<Voglio essere franco… A dir la verità questa concorrenza mi sta proprio distruggendo. Le vendite sono calate, ora si è sposata mia figlia e ho dovuto darle la dote… Sarei ben contento se potessi rovinare quei cani!>> Poi cambiò discorso e tutti ripresero a mangiare.
Due sere dopo, mentre rincasava, Ulderico trovò Michele che l’aspettava vicino casa. <<Scusate, messer Ulderico, ma dovrei parlarvi in privato>> disse Michele con aria nervosa e guardandosi intorno come se temesse di essere attaccato da un momento all’altro. <<Entrate, Michele>> gli disse Ulderico. Una volta in casa Michele, sempre con aria estremamente guardinga, disse a bassa voce: <<Mio padre è in guai seri, vorrebbe sbarazzarsi delle cimici che lo tormentano. Non so se ho reso il concetto…>> Ulderico lo guardò con un sogghigno perfido e disse: <<Chiarissimo, Michele. Vi preparerò un miscuglio di aconito, elleboro e cicuta: come vi ho già detto, questo veleno induce un sonno che porta direttamente alla morte. Saprò tenere la bocca chiusa… Ma>> aggiunse con aria minacciosa, assumendo un’espressione perfida <<il mio prezzo sono 50 soldi cortonesi d’argento. Tutti o niente. Badate di non fare scherzi, dal momento in cui mi avete fatto questa richiesta avete firmato un patto con il diavolo. Vi porterò quello che chiedete, ma voglio essere pagato fino all’ultimo centesimo. Niente scherzi. So come ricattare la gente>> <<Come volete signore. Non ci saranno malintesi fra di noi. Dove ci rivedremo?>> << Domani sera verso il tramonto andrò a casa di Lamberto Omiccioli, ufficialmente per visitarlo. Ci vedremo là. Siate puntuale e, ovviamente, venite da solo.>> <<Bene. Ci sarò>> rispose Michele, e uscì.
Accidenti, pensò Michele mi sono messo proprio un bel pasticcio. Lamberto Omiccioli è un tagliagole di prima categoria, è stato soldato di ventura e di solito si circonda di gente del suo stampo per proteggersi le spalle! Sicuramente Ulderico lo avvertirà del mio arrivo e si preparerà a ricevermi. Se dovessi fare qualche scherzo sarei veramente nei guai fino al collo.
La sera dopo Michele andò all’appuntamento, solo, con la cocolla ben abbassata sul viso. La casa di Omiccioli si trovava in fondo a un vicolo deserto. Due mendicati ciechi avvolti in stracci maleodoranti, giacevano abbandonati per terra, chiedendo l’elemosina sul ciglio della strada. Michele gettò loro un’occhiata fugace e si fermò davanti alla porta. Deglutì e inspirò un paio di volte per tenere a bada la tensione, poi bussò. Gli aprì un uomo dal viso butterato dal vaiolo, che lo invitò con un gesto sbrigativo ad entrare. Michele avanzò in una piccola sala spoglia, dove c’erano solo alcune sedie. Ulderico, insieme a Lamberto Omiccioli – tipaccio dall’aria assai poco raccomandabile- lo stavano aspettando seduti al centro della sala. Accanto a loro c’erano tre uomini. Michele stava cominciando ad avere paura, ma ugualmente si fece avanti, togliendosi il cappuccio. <<Avete il denaro?>> domandò Ulderico <<Sì>> rispose lui, porgendogli un sacchetto con le monete <<Un momento>> intervenne Lamberto, afferrandogli il polso con una forte stretta <<prima controlliamo se è “pulito”>>. Gli uomini tolsero il mantello a Michele e lo perquisirono, ma sotto la giubba non aveva niente, non portava niente alla cintura e si vedeva a occhio nudo che non aveva nascosto nulla sotto il calzebrache. Ulderico contò il denaro e disse: <<Va bene, ci sono tutti. Ecco ciò che volevate>> e porse a Michele una boccetta che l’altro mise nella scarsella. Lamberto disse: <<Resta inteso che se direte anche solo mezza parola di quanto è successo oggi qui, vi faremo a pezzi. Lentamente. Chiaro?>> <<Chiarissimo>> rispose Michele senza riuscire a trattenere un tremito nella voce. Trasse un lungo respiro e si avviò verso la porta, sempre accompagnato dall’uomo butterato.
Quando Michele aprì la porta si girò di scatto, colpì l’uomo al viso e contemporaneamente lo afferrò e lo pose fra sé e la porta. Nello stesso istante i due mendicanti dall’altra parte della strada gettarono gli stracci e si precipitarono verso di loro: erano guardie travestite. Michele tirò tre pugni velocissimi e altrettanto forti sulla faccia dalla sua vittima che svenne, mentre dalla sala accorrevano gli uomini di Lamberto con le spade sguainate. Michele si mise in mezzo alle guardie appena entrate dopo aver preso il pugnale all’uomo che aveva stordito.
Intanto nel vicolo stavano arrivando altre guardie, almeno una dozzina, ma il corridoio nel quale si stava svolgendo il combattimento era stretto. Michele e le due guardie arretrarono fino a uscire all’aperto per avere maggiore possibilità di manovra e riunirsi agli altri uomini.
Alcune guardie avevano circondato la casa. Lamberto e i suoi uomini cercarono di scappare dalle finestre, ma vennero subito circondati. Sapendo di non avere scampo si batterono come belve, non avevano niente da perdere ed erano pericolosi. Nonostante fossero circondati riuscirono a uccidere alcune guardie prima di essere uccisi a loro volta. Lamberto, più abile degli altri, riuscì a uscire dall’accerchiamento e ad arrivare fino a un cavallo, ma non riuscì a montarvi sopra perché venne afferrato e sbattuto a terra: venne catturato e portato via insieme all’uomo che Michele aveva stordito.
<<Dov’è Ulderico?>> urlò Michele. <<La casa è circondata, non può scappare. Deve essersi nascosto da qualche parte>> rispose il capitano delle guardie. <<Vengo con voi>> disse Michele, pensando Quella carogna deve darmi molte spiegazioni!. Il capitano delle guardie, tre suoi uomini e Michele entrarono nella casa. La sala che Michele aveva visto entrando era vuota. Salirono al piano di sopra e vi trovarono un corridoio con tre stanze. Non c’era anima viva. <<Non può essere sparito! >> esclamò Michele. <<No… Infatti eccolo!>> disse una guardia spalancando una cassapanca. Ulderico era nascosto lì dentro: tremante come una foglia, copriva tutti di orribili improperi e bestemmiava. <<Vieni fuori!>> disse la guardia che l’aveva scoperto, afferrandolo e trascinandolo fuori dal suo nascondiglio. <<Michele Ridolfini>> ringhiò il medico <<sei un grandissimo bast…>> Michele gli tirò uno schiaffo.
<<Calmatevi, messer Ridolfini>> disse una voce pacata alle sue spalle. Michele si voltò <<Col vostro permesso, messer podestà, vorrei fare una domanda al prigioniero>> disse Michele. Alle sue spalle c’era il podestà di Narni, Tommaso Broccolelli51. Indossava un cappuccio orlato d’argento e una tunica nera con bottoni d’oro sopra la casacca rosso scuro, brache grigie e stivali. <<Ci avete consentito di prendere un pericoloso taglieggiatore e un avvelenatore in un colpo solo. Ve lo concedo>> disse il podestà. <<Sei stato tu a dare a Goffredo Lolli il veleno per uccidere suo cugino?>> disse Michele prendendo la boccetta dalla scarsella e consegnandola al podestà. Ulderico, legato, taceva guardando Michele come una serpe senza più denti. <<Se non vuoi rispondere ora non c’è fretta… ma dubito che tu preferisca rispondere sotto tortura>> disse calmo il podestà. Ulderico a quella minaccia sobbalzò e iniziò a tremare da capo a piedi. <<Sì, sì, è vero, gliel’ho dato io!>> <<E Goffredo ti ha pagato?>> chiese il podestà <<Solo parte della somma… Non aveva potuto sposare la cognata dopo aver perso il duello, non era ricchissimo, ma per garantirmi il suo silenzio lo ricattavo appoggiandomi a Lamberto>> confessò Ulderico a testa bassa. <<Così, dopo che Goffredo ha avvelenato Filippo Lolli hai detto che era stata Diotima da Salerno>> continuò il podestà <<Sì>> ammise Ulderico. Sapeva di avere perso, tanto valeva confessare tutto. <<Quanti altri ne hai ammazzati?>> chiese duro il podestà <<Quattro>> gemette Ulderico.
<<Portate via questo verme e andare a prendere Goffredo Lolli>> ordinò il podestà. Due guardie portarono via Ulderico, gli altri avevano messo i morti su un carretto dove vennero caricati anche i prigionieri. Il capitano prese con sé sette uomini e insieme al podestà e a Michele andò al palazzo dei Lolli.
Quando entrarono tre guardie nella sala dichiarandogli che era in arresto, Goffredo divenne bianco come un cadavere. La punizione per l’avvelenamento di un parente era la morte e lui lo sapeva benissimo. Tuttavia inspirò a fondo e ritrovò la lucidità, poi disse: << Sono pronto a seguirvi>>. Si tolse la spada dal fianco e s’incamminò verso la porta. Mentre si avvicinava alle guardie, disarmato e apparentemente calmo, d’un tratto Goffredo portò la mano dietro la testa ed estrasse un pugnale da una guaina che portava sulla schiena, sotto la camicia. Saltò addosso alla guardia a sinistra, sgozzandola senza che avesse il tempo di reagire, e gli prese la spada. Lanciò il pugnale e colpì la più vicina, che si accasciò con la lama nel corpo. In due colpi fece cadere la spada al terzo uomo e lo trafisse. Entrarono altre guardie, ma Goffredo gli andò incontro con tutta la sua potenza, lottando con la forza di una belva e la lucidità di chi è abituato a uccidere. Parava e colpiva sui punti più scoperti. Ne ferì tre, riuscendo a uscire fuori dal palazzo. Il podestà era protetto dal capitano delle guardie, che sebbene fosse a cavallo non poté muoversi per evitare di lasciarlo scoperto. Michele, che era loro accanto, partì all’ inseguimento. Goffredo aveva preso un cavallo e stava scappando correndo come un fulmine, tallonato da Michele.
Corsero come dannati, travolgendo cose e persone, fino ad uscire dalla città. Una volta fuori Narni, Goffredo corse dritto in mezzo alla macchia. Ma che fa pensò Michele vuole mettersi in trappola da solo? Lì non riuscirà a muoversi con il cavallo senza essere visto, ci sono troppi alberi per muoversi liberamente e lascerà tracce dappertutto tra gli arbusti!
Michele sentì odore di trappola lontano un miglio e rallentò appena entrato nel sottobosco. Le tracce del cavallo di Goffredo erano perfettamente visibili, ma a un certo punto, seguendole, il ragazzo vide il cavallo, senza più cavaliere, che brucava in un angolo. Dov’è finito? Sicuramente sarà nascosto da queste parti, forse si è arrampicato su un albero… Non penso sia lontano si disse Michele. Proprio in quel momento vide un uccello volare via da un cespuglio. Deve essere passato da lì è lo ha spaventato pensò Michele. Il giovane si avvicinò con circospezione verso il cespuglio, ma proprio mentre si sta avvicinando, guardando verso il punto da dove era scappato l’uccello, udì un grido proprio sopra la sua testa e fece appena in tempo a saltare giù da cavallo: Goffredo gli era saltato sopra da un albero brandendo la spada. Il cavallo si impennò e lo mandò per terra, poi scappò. <<Adesso ce la vediamo io e te, Ridolfini!>> urlò Goffredo inferocito. Per poco Michele non fece in tempo a estrarre la spada che Goffredo era già partito all’attacco, e stavolta non ci sarebbe stato scudo per parare i suoi colpi o giudice che avrebbe fermato l’incontro. Schivò per un pelo il primo assalto e la spada di Goffredo colpì il tronco di un albero. Michele ebbe appena il tempo di rimettersi in posizione di guardia che gli piovve addosso una grandine di fendenti che faticò veramente a parare.
Doveva trovare un diversivo. A un certo punto Goffredo colpì verso la parte destra del collo, lui parò, con la sinistra estrasse il pugnale e lo colpì al braccio sinistro, saltando in avanti per colpire e senza disimpegnare la spada di Goffredo. Il pugnale affondò nel braccio del suo nemico, che d’istinto arretrò urlando insulti e imprecazioni. Michele estrasse il pugnale con uno strattone. Per un attimo ritornò con la memoria al giorno in cui aveva visto Lorenzo colpire il braccio armato di Guarniero di Baviera. Se adesso mi distraggo sono morto, questo cane è inferocito si disse. Adesso però Goffredo gli stava correndo incontro con un urlo belluino. Michele notò un ramo corto e grosso proprio accanto al suo piede e lo calciò come fosse una palla verso le gambe di Goffredo, che vi inciampò sopra cadendo a faccia avanti.
Michele fu su di lui e gli dette prima un calcio alla testa, stordendolo, poi gli strappò la spada e la gettò via. <<Dovrei ammazzarti come un cane!>> esclamò, puntandogli la spada contro.
<<Lasciatelo a noi, messer Ridolfini, sarà il boia a dargli il fatto suo>> Michele si voltò. Dietro di lui c’erano il capitano delle guardie, il podestà e altri uomini che presero in consegna Goffredo. <<Complimenti messere>> disse il capitano <<dove avete imparato a combattere così?>> <<Ho avuto buoni maestri>> rispose il ragazzo sorridendo.
Goffredo, Ulderico e Lamberto vennero giustiziati pochi giorni dopo. Nonostante giustizia fosse stata fatta e l’innocenza di Diotima assolutamente provata, lei rifiutò di curare chicchessia senza la presenza del marito o del padre (fatta eccezione per le famiglie di Cecco e Michele, gli unici che le avessero dimostrato fiducia), ma non smise mai di studiare, così come Giacomo non smise mai di cercare di migliorarsi.
La sera dopo l’esecuzione, Lorenzo trovò Michele assorto nei suoi pensieri. <<L’ultima volta che vi ho visto così avevate tredici anni, volevate andare a Roma perché non sopportavate più l’ambiente di casa. Qualcosa vi tormenta un’altra volta?>> <<Maestro>> disse il ragazzo <<stavo pensando che avrei sempre voluto diventare cavaliere, sin da ragazzino: ricordate quando mi avete detto che dovevo fare le mie esperienze?>> <<Sì>> <<Beh, qualcosa ho fatto. Ho combattuto un duello al primo sangue per difendere un’amica, ho studiato l’arte della scherma per anni e pochi giorni fa… prima ho rischiato di essere ammazzato prima da un tagliagole come Lamberto, poi per puro miracolo sono riuscito a catturare Goffredo. Non posso negare di aver avuto molta, molta fortuna. Tuttavia, a differenza di quello che sempre pensato, non ho provato alcun gusto nel combattere o nel vincere. Quelli non erano tornei. Quando ho combattuto per difendere Diotima ero spaventatissimo, la mia gioia è stato quando tutto è finito e lei è stata rilasciata, quando mio padre mi ha detto che era orgoglioso di me. Ugualmente non ho provato gusto a combattere contro gli uomini di Lamberto o Goffredo stesso, ma sono stato felice di vedere Ulderico confessare la sua colpa e scagionare definitivamente Diotima. Tuttavia credo di aver capito una cosa: non mi piace uccidere ma ritengo l’allenamento una cosa molto utile per difendersi e comunque sentirsi meglio con se stessi. Credete che la pratica delle armi possa andare d’accordo con la pratica dalla mercatura?>> <<Perché no?>> rispose Lorenzo <<Maneggiare le armi vi aiuterà se doveste essere attaccato durante un viaggio o in qualsiasi altra circostanza, ma non c’è bisogno di farsi soldati o cavalieri per saperlo fare bene o per partecipare ai tornei>> <<Allora credo che seguirò il destino che mio padre ha scelto per me, se quel che dite è vero>> <<Ci conosciamo da tanti anni e dubitate della mia parola, Michele?>> Il ragazzo sorrise. Poi disse: <<Credo che a mio fratello Cassio sia più utile restare ancora un anno a casa piuttosto che partire subito per Roma. Vorrei che mio padre gli desse il tempo di decidere del suo destino. Io ho avuto la fortuna di poterlo fare. Ho parlato con lui in privato, ha detto che se volevo non mi avrebbe ostacolato se avessi voluto diventare cavaliere, ma dopo queste riflessioni penso che gli dirò che al ritorno dalla Francia prenderò in mano gli affari di famiglia. Gli chiederò comunque di dare a Cassio il tempo di allenarsi ancora un po’ con voi, per tirar fuori il carattere>> <<Forse è la cosa più saggia, Michele. Basta che non mandiate in rovina il patrimonio con investimenti scellerati!>> <<Cercherò di non farlo>> disse Michele, ridendo.
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Maria Giulia Cotini
Note
1 “ E. Martinori “Cronistoria narnese” p. 247-249.
2 Sorta di calzoni ampi
3 Una sorta di gilet a maniche lunghe senza bottoni.
4 Di solito le famiglie borghesi facevano sposare le figlie con dei nobili spiantati in cerca di doti,per aumentare prestigio e salire di rango, in questo caso è avvenuto il contrario.
5 Narni all’epoca comprendeva territori dalle alture di Rieti a Tarano, a Magliano verso la Sabina. Capitone e la Torre di Picchio (E. Martinori Cronistoria narnese, p 178)
6 I mercanti, più colti dei nobili, amavano dotarsi di biblioteche più o meno vaste, dotate di libri di conto, letteratura sacra e profana.
7 Per l’epoca un’età già piuttosto avanzata
8 Solitamente si tendeva a combattere usando solo la destra, quindi un ambidestro era avvantaggiato.
9 Armi di legno
10 Sorta di spada corta, poco più grande di un pugnale. Le spade solitamente si usavano a una mano, e la spada lunga a due mani, molto pesante.
11 Il ritmo delle giornate era scandito dal sole. Non essendoci l’illuminazione notturna, solitamente le strade di notte erano deserte ma durante le fiere si accendevano delle torce appese ai muri per permettere alla gente di poter restare fuori.
12 In Toscana erano già in uso come cibo di strada le trippe cotte, come raccontano le cronache del quattrocento.
13 I fabbricanti di strumenti musicali dovevano sia costruire lo strumento sia saperlo suonare.
14 Armi e armature potevano arrivare a pesare anche 30 kg.
15 In particolare il pepe era usato per non far avariare la carne.
16 Ambrogio Visconti (1344-1373) fu alla testa di una delle prime vere compagnie di ventura, la Compagnia di S. Giorgio (da lui rifondata dopo lo scioglimento della prima, voluta da Lodrisio Visconti).
17 Il vino contiene alcool, quindi serviva come disinfettante. In mancanza di quello talvolta ci si serviva anche dell’urina, a tutt’oggi usata in alcune tribù aborigene.
18 A Salerno anche le donne (mulieres salernitanae), caso unico, potevano studiare e praticare la medicina. Studiavano anche filosofia.
19 Alcuni medici erano convocati e pagati dallo stesso podestà.
20 Patrono di Narni
21 Fino al Cinquecento invece della mano per salutare ci si stringeva l’avambraccio come gli antichi romani. In seguito per controllare che l’altro non tenesse nascosto un pugnale nella manica, si passò alla stretta di mano.
22Michele da del “voi” a familiari e adulti in segno di rispetto e del “tu” ad amici e persone di rango sociale inferiore.
23 L’attuale Istanbul.
24 Attualmente Piazza dei priori, detta all’epoca Platea Maior
25 Attualmente Alvenino
26 All’epoca non si usavano le posate
27 Discussione fra dotti di diverse scuole
28 Monaci cui era affidato il compito di curare l’orto e le piante medicinali del monastero.
29 Galeno di Pergamo (Pergamo 129-Roma 201 circa) è stato un medico greco le cui idee hanno influenzato la medicina e la farmacia fino al Rinascimento.
30 Taglio eseguito allo scopo di far perdere sangue infetto (come in caso di gotta), spesso eseguito anche da semplici barbieri in pessime condizioni igieniche.
31 Pedanio Dioscoride era un erbario della scuola salernitana vissuto nel primo secolo dopo Cristo la cui prima traduzione latina risale a sesto secolo. Giovanni Mesue il Vecchio era un medico siriano che fece conoscere, assieme al medico persiano Avicenna, una traduzione latina dell’opera di Dioscoride ampliata.
32 Shabbetay ben Avraham Donnolo (913-982 circa), medico ebreo nato e cresciuto nella Puglia bizantina ma associato al mondo salernitano.
33 Medico proveniente forse dalla comunità cristiana di Cartagine, (1010- 1087 circa) che si stabilì a Salerno e tradusse molte opere dall’arabo.
34 Latinizzazione del nome del medico Abu Bakr Muhammad ibn Zakkariya al-Razi (864-925 circa).
35 Uno dei rioni (terzieri) in cui era divisa Narni.
36 Tutti i terzieri in cui era divisa Narni
37 Carica corrispondente a quella di Gonfaloniere in altre città, era una sorta di alto magistrato che dipendeva dal papa. In genere il giudice veniva fatto chiamare da fuori.
38 Il palazzo Mancinelli si trova tutt’oggi in via Aspromonte
39 Pantaloni aderenti molto usati, sorta di calzamaglia cui era talvolta attaccata una sorta di pantofola in cuoio a mo’ di scarpa.
40 All’epoca c’erano due pasti principali, il pranzo, solitamente abbondante, e una cena leggera. Potevano esserci (per chi aveva bisogno di più energie per lavorare) vari spuntini nel corso della giornata.
41 Verso le 6 di sera, vedi nota 31
42 Circa mezzanotte
43 Nel medioevo le ore erano 12 per il giorno e 12 per la notte, ed essendo legate al ciclo solare avevano una durata diseguale nelle varie stagioni: d’estate erano più lunghe le ore diurne rispetto a quelle notturne, d’inverno accadeva il contrario. Alcune ore poi, essendo quelle stabilite come momento della preghiera giornaliera dei monaci, erano divenute particolarmente importanti per tutti ed erano dette canoniche, così suddivise: mattutino, prima, terza , sesta, nona, vespro, compieta. Le ore della notte, sempre divise in quattro parti dette “VIGILIE”, nome dato dai turni di vigilanza dei soldati romani: PRIMA (dalle ore 19.00 alle ore 21.00) SECONDA (dalle ore 21.00 alle ore 24.00) TERZA (dalle ore 24.00 alle ore 03.00) QUARTA (dalle ore 03.00 alle ore 06.00)
44 Mezzogiorno.
45 Era considerato disdicevole per una donna mostrare apertamente i capelli.
46Se una donna restava vedova e non aveva figli, la famiglia del marito era tenuta a restituire la dote alla famiglia della vedova. Se questa però convolava nuovamente a nozze con un membro del casato del defunto, la dote non veniva restituita.
47 Durante lo sfaldamento dell’impero romano il duello si estese come prova ordalica dai popoli germanici a quelli mediterranei per risolvere contenziosi civili o criminali tra liberi (milites o nobiles) e durò fino al basso medioevo.
48 L’onore era considerato quasi sacro.
49 San Michele arcangelo e san Giorgio erano patroni della giustizia e dei cavalieri.
50 piccolo scudo rotondo dotato di una sorta di umbone.
51 Podestà di Narni nell’anno 1384, parente della Beata Lucia da Narni (Martinori, …)
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Maria Giulia Cotini